Per i maori il mondo si divide in tipu e noa, tipu è sacro, noa e’ profano. Ma quando c’è troppo tipu non va bene: il sacro, si sa, e’ sempre ingombrante. Allora bisogna far diventare noa il tipu di troppo e il modo più efficace per farlo e’ mangiarlo. I maori erano cannibali e sanno di cosa parlano. Così quando si viene accolti in un marae maori, la loro casa sacra, dopo un po’ si viene invitati a mangiare, perché fra noi e loro abbiamo sparso in giro un sacco di tipu e l’aria si è fatta pesante. In altri tempi i maori avrebbero risolto l’ingombro mangiando noi, oggi invece ci offrono te e pasticcini.
Questi sono giorni solenni per i maori, perché si stanno commemorando qui in Nuova Zelanda le battaglie della prima e della seconda guerra mondiale dove combatterono truppe maori. A Gallipoli il battaglione maori combatte’ con tanto accanimento che dovette essere richiamato indietro e messi a scavare trincee nelle retrovie perché in prima linea stavano crepando tutti e laggiù a casa non c’erano più abbastanza giovani per garantire la sopravvivenza del popolo. Stessa cosa a Cassino: i maori non si facevano mai indietro, sospinti all’attacco non solo per la vittoria ma anche per proteggere i loro compagni maori. Tutta l’etica maori si fonda infatti sulla famiglia e sul culto degli antenati. Come noi, diranno in tanti. Sì ma da loro che sono meno antichi di noi la genealogia che porta ogni uomo al suo Dio è più fresca. Già gli antichi greci non ricordavano più i nomi dei loro parenti che discendevano da Chronos e Rea, figuriamoci noi! Roba troppo antica.
I maori invece sono giovani, anche in Nuova Zelanda, dove sono arrivati nel 1300 si considerano ancora gente venuta da fuori. Cosi giovani che sanno tracciare fino all’ultimo trisavolo la loro parentela con Po e Te Morn che sono la notte e il giorno, inizio di tutto. Non hanno la foto in salotto di Toko-rua, Toko-roto e Toko-pa, i loro primi antenati, ma un bel totem di legno con il loro ritratto, e questo li fa sentire molto uniti. L’essenziale per i maori è conoscere il proprio whakapapa, l’albero genealogico, che recitano come una preghiera nominando tutti i parenti fino a Pu. La famiglia o meglio la tribù si chiama iwi che significa ossa ed è il centro della società maori. I loro profondi legami tribali non impediscono ai maori di tessere altri legami, così furono in molti a fraternizzare con gli italiani durante la guerra. Sarà anche perché in maori “ciao” si dice “kia ora”, pronunciato “ke ora” e così molti italiani devono aver risposto che ora era. Da equivoco nasce equivoco cosicché oggi qui in Nuova Zelanda ci sono molti maori che portano nomi di città italiane. Poi, si sa, da noi come da loro la famiglia è sempre la famiglia e i maori in Italia si sono trovati così bene che oggi una delle più grandi iwi maori si chiama Sciascia.