Come si sa, la costruzione europea si basa sul principio dell’uguaglianza dei suoi membri che sono stati nazionali sovrani. Il fondamento democratico del progetto europeo è irrinunciabile e trae la sua origine dalla volontà di sventare in Europa la spirale di rivalità che in passato ha portato alla supremazia di una nazione sulle altre e alle disastrose guerre che tutti conosciamo. Ma le nazioni europee, come gli individui, non sono tutte uguali. Hanno anzi volutamente deciso di distinguersi e separarsi in un processo nato due secoli fa che ha portato alla dissoluzione degli imperi multinazionali e alla nascita di nazioni distinte, raggruppate in stati diversi.
L’impero, che per migliaia di anni ha caratterizzato il modo di vivere della civiltà occidentale e mediterranea, sotto la spinta dell’industrializzazione, non ha saputo tenere il passo coi tempi. La nazione, monolingue e di cultura standardizzata, che poteva usufruire di grandi masse uniformi concentrate in aree circoscritte, era più adatta alla produzione industriale rispetto agli imperi multiculturali, frammentati in lealtà locali, in religioni e lingue diverse, in grandi e mal collegate estensioni di territorio. Le nazioni europee, dopo essersi reciprocamente distrutte e annientate in due guerre mondiali, con la costruzione europea hanno voluto porre un fine alla loro micidiale competizione mettendo in comune risorse e mercati. Ma questo patto, questa unione di intenti, non ha cancellato le differenze fra le nazioni.
La varietà di culture e di caratteri che una volta era diluita negli imperi multinazionali, con gli stati nazionali è scomparsa e ogni stato oggi ha un proprio specifico carattere. Non solo, ma ci tiene anche molto a distinguerlo dagli altri. Questa diversità ha finito col tempo per fare a pugni con la nostra pretesa uguaglianza. Che comunque è un’idea pretestuosa e labile. Ha scritto Elémire Zolla: “Chiunque ribadisca la comunanza che unisce gli uomini li sta separando dallo spirito che li individua.” Come fra individui non vogliamo essere uguali agli altri, anzi facciamo di tutto per smarcarci e per avere una nostra connotazione, così come nazioni abbiamo tutte la pretesa di essere meglio delle altre. Qualche esempio molto banale: nelle pubblicità televisive italiane si insiste spesso sull’italianità di un prodotto e sulla provenienza italiana di ogni suo ingrediente. Si intende così dire che noi siamo meglio degli altri e che questa eccellenza è intrinseca alla nostra differenza. Se per noi l’uguaglianza fosse davvero un valore, ci andrebbe bene anche il latte tedesco, il prosciutto bulgaro, i pomodori olandesi. Invece no, vogliamo distinguerci. E abbiamo ragione. Sempre Zolla scrive: “La distruzione della dignità ancor prima che dell’individualità è il fine del culto ugualitario.” Ma come non siamo tutti uguali nella produzione di pomodori, latte e prosciutto, così siamo diversi nei nostri destini di individui e nelle nostre capacità.
Vogliamo o non vogliamo finalmente farci orientare dal merito e non dal sopruso? Allora dobbiamo accettare una scala del merito in ogni competenza, non solo come individui ma anche come nazioni. A giocare a calcio noi italiani siamo piuttosto bravi. Possiamo considerarci una media potenza mondiale. Non siamo invece per nulla bravi a giocare al moderno stato nazionale ad economia capitalista nel libero mercato. Non c’è nulla da fare, in questo siamo proprio scarsi. Sono duecento anni che ci proviamo, ma fra i paesi a noi paragonabili arriviamo sempre ultimi. Corruzione, inefficienza, mancanza di strategia, sprechi, litigiosità, incapacità di riforma, monopoli, protezionismi, improduttività, sono tutti difetti italiani che fanno a pugni con la costruzione politica dello stato capitalista. In più, mettendoci tutti insieme solo fra italiani in un paese tutto di italiani, abbiamo anche peggiorato le cose. Abbiamo concentrato al massimo i nostri difetti, e soprattutto quelli che ci rendono inadatti al sistema capitalistico. Secoli di dominio del pensiero anticommercialista cattolico hanno avuto la loro influenza. Quando almeno una parte di noi viveva diluita in un impero, i nostri difetti nazionali si notavano meno. Li spargevamo in giro per l’Europa, venivano mitigati dalle qualità degli altri. E noi a nostra volta mitigavamo i difetti altrui con le nostre qualità. Perché non dimentichiamolo, abbiamo anche delle qualità. L’inventiva, il dinamismo individuale, l’intraprendenza, la spregiudicatezza, la creatività. Che però lasciate senza senso dello stato, strategia politica, solidarietà, responsabilità e civismo, in un modo dominato dalla figura politica degli stati nazionali, fanno più difetto che qualità. Noi siamo capaci di grandi individualità, ma nel gioco dello stato capitalista, dove conta molto la squadra, non riusciamo ad essere competitivi.
In Europa c’è invece un paio di paesi che hanno dimostrato fin dall’inizio di essere invece portati a questo gioco. Oggi più che mai si smarca fra questi la Germania, che con la sua supremazia economica si è ormai ripresa quel che nel secolo scorso aveva conquistato con la forza militare. Malgrado il pesante ridimensionamento territoriale cui fu condannata, malgrado la tutela internazionale cui fu costretta, la Germania al gioco della produzione capitalistica risorge e stravince. Dove è arrivato prima il marco tedesco poi l‘euro, la potenza economica tedesca si è pacificamente radicata e ha mutato per sempre il paesaggio economico. Interi stati sono diventati suoi satelliti, spesso proprio quelli che più duramente avevano combattuto per sfuggire al suo impero e che oggi senza battere ciglio prosperano sotto il suo nuovo dominio. Questa è l’ennesima prova che non siamo tutti uguali in Europa, che ci sono nazioni più adatte di noi, dei greci, dei portoghesi o degli spagnoli al modello economico del capitalismo e del libero mercato. E siccome questo è il modello del nostro tempo, per noi non c’è scampo. Perché dunque accanirsi ad opporsi ad una supremazia innegabile? Perché non accettare infine l’imperio della Germania e facilitarlo anziché ostacolarlo? Oggi che non arriva sulla punta delle baionette ma sulla ragionevole ingiunzione della parità di bilancio è ben più accettabile.
Uno degli elementi che attizza la diseguaglianza è inesorabilmente il numero. Siccome in Europa ci sono 80 milioni di tedeschi e 5 milioni di slovacchi, sarà difficile avere un grande economista, un grande filosofo o un grande statista slovacco. Riportato tutto in proporzione, la complessità cui deve far fronte un ministro slovacco è quella che in Germania deve affrontare un assessore provinciale. Questo piccolo teorema dimostra quanto siano inadeguati oggi gli stati nazionali: piccole voliere dove prosperano uccellini che fuori sarebbero subito preda dei falchi. Senza l’Italia, metà della classe dirigente italiana sarebbe spazzata via dalla sua incompetenza e inadeguatezza. Ma siamo sicuri che questo sarebbe un male per gli italiani? Siamo sicuri che non sia meglio essere governati da un tedesco mediocre che dal migliore dei nostri? Qualcuno a questo punto solleverebbe la questione della libertà. Dominati dai tedeschi non saremmo più liberi. Ma che libertà c’è a non essere capaci per vent’anni di dotarsi di una nuova legge elettorale? Che libertà c’è a svendere l’Alitalia agli sceicchi dopo averne subito l’inefficienza e pagato i debiti per decenni? Tornando all’argomento del cibo che ci è tanto caro, è meglio un formaggio tedesco sano o una mozzarella campana al cadmio?
Diego Marani