colonna sonora: Kiasmos – Held
Non c’è niente di più triste di quelli che fanno un figlio e da quel momento in poi tutti i loro interessi iniziano a girare intorno a quel figlio, non trovi, appapà?
Ancora più patetici quelli che guardano il loro piccolo sgorbietto rugoso e spelacchiato e vedono il bambino più bello del mondo, senza capire di essere solo accecati dalla faziosità, visto che il bambino più bello del mondo è il mio. Vero, appapà?
(adesso però smetti di rompere i coglioni perché papà deve scrivere la rubrica sulle gioie della paternità e se non la fai finita chiamo l’uomo nero che ti porta nel paese dei comunisti dove ti mangiano a mozzichi mentre un lupo cattivo ti fa le punture)
Facciamo un passo indietro. Ora due in avanti e una giravolta. Ora torniamo seri e facciamo di nuovo un passo indietro.
Quei mentecatti dei dottori del reparto maternità, dopo aver fatto i loro esami e le loro visite, dicono alle coppie di neo genitori che sono pronti per tornare a casa, fanno mille sorrisi e congratulazioni e non vedono l’ora che la coppia schiodi per dare il posto letto – a pagamento – a qualcun altro. Ma una mamma e un papà appena nati non sono ASSOLUTAMENTE pronti per tornare a casa e non lo saranno per i primi diciotto anni di vita. E il bambino lo sa, per questo piange. Può addirittura capitare che il papà durante il tragitto verso casa, per l’emozione e il carico di responsabilità di avere per la prima volta in macchina un campione del proseguimento della specie umana, prenda una rotatoria contromano e insulti con occhi da pazzo l’automobilista che lo sta guardando atterrito per aver appena rischiato un frontale. Fortunatamente è un caso raro e comunque stiamo tutti bene.
L’ingresso in casa del nucleo famigliare aumentato è un momento storico e simbolico talmente profondo… che nessuno se lo ricorda. Si è troppo presi a cercare di tenere bene il bambino, piano che così gli spezzi il collo, occhio che all’interno sono fatti di cristallo leggerissimo, attento che prende freddo, poggialo sul termosifone ed aggiungi una quinta coperta, anzi scuoia il cane e rivestici il piccolo, il cane del vicino intendo, noi non ce l’abbiamo… no, quello non è il nostro nuovo yorkshire, è un grumo di laniccia, forse dovremmo pulire visto che i bambini sono allergici anche all’ossigeno, anzi sterilizza l’aria se puoi, intanto controlla se respira e prendigli la temperatura e pesalo che sono già passati cinque minuti…
I neo genitori sono un concentrato di ansia, paura, angoscia, insicurezza, terrore, adrenalina, inadeguatezza e pessimismo; poi s’incantano a guardare il loro cucciolo che dorme sereno e raggiungono il nirvana zen luminoso dell’estasi paradisiaca endorfinica: non sono individui stabili.
D’altronde a parte le blande nozioni date da pediatri e ostetriche e ascoltate distrattamente (che aveva detto la dottoressa, ogni quanto dobbiamo dargli il succo d’acero?), genitori e figli non si conoscono, non parlano la stessa lingua e neanche vengono dallo stesso mondo. Ognuno si aspetta qualcosa dall’altro o magari da Madre Natura, che faccia scattare un istinto ancestrale con iscritto il manuale d’istruzioni. Ma non succede, o meglio, Madre Natura ha previsto che ci si armi tutti e tre di santa pazienza e ci si impari a capire giorno dopo giorno, notte in bianco dopo notte in bianco.
I neonati piangono, è il loro unico modo di comunicare. A volte per motivi chiari, altre volte per motivi oscuri e questi ultimi portano alla follia dei genitori, che disperati si rivolgono al pediatra, allo stregone, all’esorcista o a Dio in persona (che però si fa negare al telefono). La risposta alla fine è che i neonati piangono (il termine scientifico è “pianto inconsolabile del primo trimestre di vita”). E ne hanno ben d’onde. Sono stati strappati senza consenso da un luogo sicuro e confortevole in cui non dovevano neanche sforzarsi di mangiare o respirare, dove tutti i suoni erano attutiti dal pancione e c’era sempre il battito del Cuore di Mamma a calmarli e scandire il passare del tempo; sbattuti in un mondo in cui non esistono buio e silenzio, dove il traffico non si ferma mai, dove tutti corrono ad occhi chiusi verso il tramonto della “civiltà” e per pura fortuna siamo nell’emisfero dove non ci sono i bombardamenti per riportare la giustizia. Ciucciare una tetta è bello, dormire su un materasso antisoffoco antiacaro antiallergico antipatico in una culla iperbarica è piacevole, fare cacca e pipì sui genitori è molto divertente e sguazzare nel bagnetto è impagabile… ma nei (moltissimi) tempi morti il neonato si ricorda del suo passato recente, sa che non potrà mai più tornare in quel suo mondo fatato, sente le notizie del giornale radio (o le legge su eunews.it, l’Europa come non l’avete mai letta) e reagisce come farebbe chiunque di noi se si lasciasse andare: piange e urla fino perdere la voce. Coliche, gas, reflusso, sindrome dell’abbandono… non è vero niente: il neonato piange perché è incazzato nero coi genitori, artefici dei suoi traumi, e sa che piangendo gli spezza il cuore, oltre ai nervi e ai timpani. E’ una prova di forza.
Quindi ci vuole pazienza. Oltre ad amare il nuovo arrivato bisogna farsi amare, cercare di comunicare con lui, mettersi sulla sua lunghezza d’onda per ritrovare il nostro Unihipili, ovvero il bambino interiore in hawaiano (su questa rubrica si imparano un sacco di cose interessanti). Non bisogna mai smettere di coccolarlo e di parlargli, come fosse un adulto, perché ognuno comunica nel modo che conosce.
Ieri per esempio durante una crisi di pianto iniziata con mio figlio che guardava con terrore verso le ante dell’armadio, ho iniziato a raccontargli un po’ di cose per calmarlo, seguendo i consigli di uno dei trentaseimila libri letti sulla puericultura (i libri potrebbero essere materiale per una prossima puntata, ricordatemelo scrivendo commenti, inviando mail o facendomi le poste sotto casa) che diceva di non limitarsi a poche parole ma di argomentare e spiegare: “quello è l’armadio, dove mamma e papà mettono i vestiti. L’abbiamo comprato da Ikea, quella ad Anderlecht. Ikea è una grande azienda svedese che ha inventato i mobili di scarsa qualità da montare da soli a casa per avere lo stesso arredamento di tutte le altre case. Quelle cose che spuntano dall’alto sono lampadine, che si accendono automaticamente grazie ad un meccanismo a molla, sempre di Ikea, così se sei al buio comunque hai una luce tipo occhio di bue che ti illumina i vestiti”. Lui sembrava abbastanza soddisfatto ma mi sono sentito in dovere di essere più chiaro: “l’occhio di bue letteralmente è l’organo della vista del maschio della mucca castrato, poveretto, ma in questo caso rappresenta un tipo di luce che si usa per illuminare i cantanti o gli attori”. Solo che poi non riuscivo più a fermarmi: “gli attori sono quelli che recitano nei teatri o nei film. Recitare significa interpretare la realtà in maniera fittizia. Quello che stiamo vivendo io e te adesso, cioè tu che piangi mentre io ti parlo di cose senza senso, è la realtà; se un attore molto piccolo interpretasse te e Raz Degan facesse me, quello sarebbe recitare. Raz Degan era un belloccio anni ’90, non so come m’è venuto in mente, papà non ha la televisione dal 2004, è rimasto un po’ indietro… comunque faceva la pubblicità di un amaro e diceva “non bevevo Jegermeister perché… perché… e concludeva con sono fatti miei”.
A quel punto il pupo è passato dal pianto agli strilli isterici, perché nel mondo sereno dal quale è sbarcato non esisteva Raz Degan né tantomeno nessuno che te ne parlasse senza che tu gli avessi chiesto niente. Per fortuna è arrivata la mamma che grazie alla tetta gli ha donato un po’ di pace. A lui, ai nostri timpani e a quelli dei vicini.
La magia della paternità è anche trovarsi a parlare di Raz Degan a un essere umano di mezzo metro che piange. E rendersi conto che la comunicazione è fondamentale: nello stesso momento in cui tu non capisci perché lui pianga, lui non capisce perché cazzo gli stai parlando di Raz Degan.