Roma – Il piano europeo sull’immigrazione non soddisfa a pieno l’Italia. Non è un mistero. Lo conferma il presidente della commissione Politiche Ue di Montecitorio, il deputato Pd Michele Bordo. In un colloquio con EUNEWS in cui indica le ulteriori evoluzioni per una gestione realmente comune del problema – una posizione in linea con quanto dichiarato a Strasburgo dal cancelliere tedesco Angela Merkel (intervenuta poco dopo la realizzazione di questa intervista) – e mette in guardia sulle insidie che si annidano dietro le divisioni tra i 28, non solo riguardo alla gestione dei flussi migratori ma anche in politica estera. A suo avviso, senza coesione è a rischio per fino la tenuta delle istituzioni europee.
Eunews: Presidente, venerdì partiranno i primi ricollocamenti di rifugiati dall’Italia. Il piano approvato dall’Ue, pur con resistenze, si avvia. È sufficiente?
Bordo: La decisione assunta a Bruxelles sui ricollocamenti è un primo passo, importante ma insufficiente. Noi siamo contenti perché fino a pochi mesi fa, in Europa, c’era la convinzione che l’emergenza immigrazione dovesse essere affrontata solo dai paesi di frontiera. Adesso c’è una consapevolezza diversa. Tutti hanno compreso che il problema o lo si affronta assieme o non ha soluzioni. In prospettiva credo si debba lavorare per cambiare gli accordi di Dublino, pensati quando nessuno immaginava che l’Europa si sarebbe trovata ad affrontare una emergenza così significativa. Dobbiamo arrivare al riconoscimento del diritto di asilo europeo. Questa consapevolezza deve maturare e sta maturando piano piano. O si ha un’idea complessiva del fenomeno, e tutta assieme l’Europa si assume la responsabilità della gestione, oppure questa è una emergenza che può veramente minare alle basi la tenuta complessiva dell’Ue. Ogni Stato deve fare tutti gli sforzi per anteporre gli interessi generali a quelli nazionali.
E.: A proposito di sforzi, all’Italia viene chiesto quello di garantire l’identificazione di chi sbarca.
B.: Noi abbiamo sostenuto dall’inizio che non si poteva chiedere all’Italia la realizzazione degli hotspot per l’identificazione se contemporaneamente non si fosse riconosciuta la necessità di redistribuire i rifugiati. Nel momento in cui c’è stato questo riconoscimento abbiamo fatto partire e stiamo facendo partire gli hotspot, qua e anche in Grecia. Abbiamo la consapevolezza che il tema dell’identificazione immediata c’è, ma se non fosse accompagnata dalla ricollocazione degli immigrati è evidente che non risolverebbe il problema.
E.: Molti migranti, soprattutto tra gli eritrei, continuano però a rifiutarsi di dare le impronte digitali e farsi registrare. Basterà avere la cooperazione di personale dell’Ue, che affiancherà quello italiano negli hotspot, per risolvere il problema?
B.: Non è un tema nuovo la difficoltà di procedere all’identificazione perché spesso gli immigrati si rifiutano. Credo serva anche la loro collaborazione. Una volta salvate le persone, senza alcuna distinzione perché questo deve essere un caposaldo, gli immigrati devono mettere in condizione i Paesi europei di distinguere i potenziali rifugiati dai cosiddetti migranti economici. È utile innanzitutto per gli stessi immigrati.
E.: Ieri si è raggiunta un’intesa tra il presidente della Commissione Jean Claude Juncker e quello turco Recep Tayyip Erdogan per avviare il dialogo sulla cooperazione tra l’Ue e Ankara nella gestione dell’emergenza rifugiati. Lo si può leggere come un tentativo di superare le divergenze interne all’Unione cercando di tenere fuori il problema il più possibile?
B.: No. Fa bene la Commissione europea a interloquire con i Paesi di transito, che nella gestione di questa emergenza stanno svolgendo e hanno svolto una funzione molto significativa. Voglio ricordare che in Europa sono arrivati 500 mila immigrati dallinizio dell’anno – e in Italia sono leggermente calati rispetto al 2014 – ma Giordania e Turchia hanno a che fare con numeri notevolmente superiori: la prima accoglie circa un milione di profughi, la seconda tra un milione e mezzo e 2 milioni. Dunque, credo sia giusto che l’Ue collabori con chi, se non riceve sostegno, rischia di collassare. Altrimenti rischiamo di avere ripercussioni, in Europa, molto più impegnative di quelle che abbiamo affrontato finora. Quindi, intervenire in Turchia lo giudico un fatto molto positivo che denota invece lo sforzo dell’Ue di assistere i paesi che sono in trincea riguardo alla gestione dell’emergenza.
E.: Mantenere stretti legami con la Turchia non serve solo a gestire i profughi. È fondamentale anche nell’ottica di una soluzione alla crisi siriana. Sulla Siria però, ancora una volta, l’Ue è divisa. Il protagonismo interventista della Francia si scontra con posizioni come quella dell’Italia, che vuole evitare il ripetersi del caos iracheno del dopo Saddam o di quello libico del post Gheddafi. Si troverà una sintesi?
B.: L’Europa, non solo sulla crisi siriana ma su molti altri temi di politica estera, obbiettivamente ha avuto notevoli difficoltà. Non è mai stata protagonista come una unione di Paesi. La politica estera è stata sempre terreno di iniziativa dei singoli Stati membri per ragioni storiche, geografiche, geopolitiche. Siamo al punto, però, in cui bisogna fare un salto di qualità. Perché se prima si giustificava la posizione del singolo Paese in politica estera – specialmente in relazione a determinate aree, come il Medio Oriente – perché si agiva sostanzialmente sotto il cappello degli Stati uniti, adesso siamo di fronte a scenari notevolmente cambiati. Gli Stati uniti hanno scelto, con il presidente Obama, di avere una posizione più soft rispetto a situazioni difficili, soprattutto in Medio Oriente, e chiedono all’Unione europea, ai nostri Paesi, di gestire vertenze di questo genere. Ma fino a oggi l’Europa non ha avuto questa forza e questa capacità. Anche qua c’è bisogno di un’inversione di tendenza. Su questo il protagonismo dell’Alto rappresentante Federica Mogherini è importante. Sta facendo comprendere, con una importante iniziativa politica, che vicende come queste vanno gestite unitariamente e non singolarmente. L’idea che l’Ue possa avere posizioni unitarie solo sui temi economici – e spesso poi nemmeno su quelli – significa non rafforzare affatto la tenuta delle istituzioni europee. Ora, o si assume una posizione unitaria o altrimenti si fa più fatica. Ecco perché giudico positivamente la posizione che la Nato sta prendendo in Iraq nei confronti dell’Isis.
E.: Lì in effetti l’intervento militare è più condiviso, a livello di comunità internazionale, rispetto a quanto non avvenga in Siria.
B.: Io farei una distinzione: è possibile un intervento militare se c’è il consenso del Paese in cui si sta intervenendo. È il caso dell’Iraq, dove la Nato ha assunto l’iniziativa delle operazioni militari e, anche se al momento la nostra posizione è prudente, non escludiamo di cambiare le nostre regole di ingaggio se la coalizione, di cui facciamo parte, decidesse che è necessaria una presenza diversa anche dell’Italia per combattere l’Isis. Su questo sono chiare le posizioni espresse sia dal ministro della Difesa Roberta Pinotti che da quello degli Esteri Paolo Gentiloni. In Siria la situazione è diversa. Anche se c’è bisogno di un intervento della comunità internazionale, la Russia ha scelto di intervenire in assenza di una decisione della stessa comunità internazionale.
E.: Ma lo ha fatto su richiesta di Damasco, dunque con il consenso formale del Paese in cui sta intervenendo.
B.: Sì, su richiesta del governo di Bashar al Assad. Tuttavia i russi, che hanno scelto di intervenire in Siria anche per l’assenza di un orientamento della comunità internazionale, sembra che oltre che colpire i terroristi dell’Isis stiano colpendo anche gli oppositori del regime. E questo non va bene. Sarebbe invece utile che continuasse il confronto tra Russia e Stati Uniti per colpire il terrorismo e, la stessa comunità internazionale, dovrebbe prendere una decisione sulla Siria. Decisione che dovrebbe contemplare tanto la lotta all’Isis quanto l’avvio di una forte iniziativa politica che consenta di accompagnare quel Paese verso il superamento del regime di Assad.
E.: Senza però lasciare un vuoto politico, come ha più dichiarato il premier Matteo Renzi.
B.: Esatto. È la ragione per la quale siamo sempre convinti che prima di lanciare un intervento bisogna avere sul piano politico le idee chiare su cosa deve succedere un attimo dopo. Perché non ci possiamo permettere nel modo più assoluto di lasciare un altro Paese nell’instabilità, come è avvenuto in passato in Iraq e Libia.
E.: Non trova però che decidere a livello internazionale quali sviluppi debba prendere la crisi siriana violi il principio di autodeterminazione dei popoli?
B.: Il tema vero è evitare che continui in alcuni paesi la tirannia di dittatori che impediscono la libertà che fanno persecuzioni e che con i loro atteggiamenti possono determinare la fuga milioni di profughi. C’è chi sostiene che se rimanesse Assad, anche una volta sconfitto l’Isis, ci sarebbero milioni e milioni di profughi. Il tema, quindi, non è l’autodeterminazione dei popoli, è che là i popoli molto spesso contano poco di fronte alle dittature di tiranni. Credo che la comunità internazionale, di fronte a situazioni del genere, abbia il dovere di intervenire.