Andrà a finire che i repubblicani ortodossi e benpensanti andranno a votare in massa per Hillary mentre i colletti blu democratici insieme a tutti i non pochi che sono incavolati con l’establishment correranno a dare il loro voto a Trump? E’ uno degli esiti possibili a questo punto delle elezioni presidenziali più pazze della storia. Bernie Sanders, il nonno che piace ai millennials, ancora non getta la spugna, ma ad ogni voto delle primarie la marcia dello schiacciasassi HRC (alla ex first lady piace essere chiamata così perché ricorda FRD o JFK) sembra sempre più inarrestabile. E sempre più profondo è lo sconforto dell’establishment repubblicano, non solo perché The Donald continua a vincere, ma soprattutto perché porta la gente a votare: quando c’è lui alle primarie il turnout schizza e a volta addirittura raddoppia. E portare a votare chi di solito non ci va è la chiave per vincere in America, come ben sanno George W. Bush e Barack Obama.
Trump è un terremoto le cui onde d’urto vanno ben oltre i confini americani. Lunedì 7 marzo la Reuters riportava che le diplomazie di tutto il mondo – dall’Asia al Sudamerica, dall’Europa al Medioriente – sono in massima allerta per il timore di un presidente isolazionista, protezionista e xenofobo. Tutti elementi che scaldano i cuori dei supporter di Trump e deprimono i big del partito repubblicano. Che probabilmente preferiscono un Rubio qualunque che vada a perdere contro Hillary che perdere il controllo del partito e le loro posizioni di potere per sempre.
E’ già successo 40 anni fa, quando Ronald Reagan andò a sfidare alla convention Repubblicana il presidente uscente Gerald Ford. Reagan veniva da due mandati da governatore in California, aveva carisma, era un trascinatore, e tra parentesi allora aveva anche quasi 10 anni meno di Trump oggi. Ford aveva solo avuto la fortuna di trovarsi abbastanza avventurosamente vice-presidente al momento dell’impeachment che costrinse Nixon ad abbandonare la Casa Bianca. Di lui lo stesso Nixon sembrava dicesse che non fosse abbastanza intelligente per masticare la gomma americana e camminare contemporaneamente. Ma era l’uomo dell’establishment. Ebbe la nomination e andò a sconfitta sicura contro Jimmy Carter, una versione giovanile di Bernie Sanders. Reagan mise radici più profonde nel partito nei quattro anni successivi e nel 1980 entrò trionfalmente alla Casa Bianca.
Trump è molto più esterno di Reagan al partito, non ha alcuna esperienza politica, ma dice quello che l’americano medio e depresso da otto anni di Obama vuol sentirsi dire. Vogliamo tornare a contare a casa nostra e nel mondo. Non ne possiamo più del politically correct. Siamo stanchi di farci bagnare il naso dall’ultimo messicano, o cinese, o islamico che sbarca nel nostro paese.
Molti dicono e scrivono che dipingere l’America come un paese in ginocchio o quasi sia un’invenzione che non trova riscontro nei numeri. Come Warren Buffett che nella sua lettera agli azionisti un paio di settimane fa ha scritto che i bambini che nascono oggi in America sono la generazione più fortunata della storia. Buffett è un supporter di Hillary e la sua è suonata come una risposta a Trump: non c’è bisogno di far tornare grande l’America perché è già grande. Altri citano i numeri, disoccupazione al 5% o sotto, Pil che cresce al 2,5%, Wall Street in salute nonostante le turbolenze degli ultimi sei mesi. Roba che in Europa ce la sogniamo. Altri numeri raccontano una realtà un po’ diversa, come i 40 e passa milioni di americani che arrivano a fine mese con le food stamp, i buoni per gli sconti ai supermercati distribuiti ai poveri. Oppure il numero molto elevato di americani fuori dalla forza lavoro, che non vengono rilevati dai dati sull’occupazione perché non la cercano più. I numeri, si sa, possono dire tutto e il contrario di tutto, sotto tortura confessano qualunque cosa.
Probabilmente il problema non è economico, o non solo economico. C’è in ballo qualcosa di più. L’idea ormai molto diffusa che a Washington e anche a Wall Street si sia insediata una classe di alieni, personaggi avulsi dalla realtà e interessati solo a perpetuare il proprio potere. Gente come i Clinton, per capirsi, o come gli Obama. Che vogliono entrare nella vita dei cittadini, dirgli perfino cosa devono mangiare, e che si assumono tutto il merito di aver tirato fuori l’America dalla Grande Recessione così come quello della creazione di posti di lavoro.
Per capire di cosa stiamo parlando rubiamo un paragrafo al prologo di un libro in uscita a firma Lawrence Lindsey e titolato “The conspiracies of the ruling class”, vale a dire le congiure della classe al potere. Lindsey non è certamente un liberal, ha servito sotto Reagan e Bush come consigliere, è stato nel board della Fed di Alan Greenspan fino al 1997 ma lo ha anche duramente criticato quando la stessa Fed andò in soccorso nel 1998 di un hedge fund che rischiava di saltare, il Long Term Capital Management di John Meriwether. Per molti fu il peccato originale che portò 10 anni dopo alle estreme conseguenze del crac Lehman. Leggiamo Lindsey: “Dobbiamo riaccendere la visione di libertà che ha dato vita alla fondazione dell’America nel 1776. L’America è una causa, non soltanto un paese”. Insomma, tradotto molto liberamente, la classe al potere che sta a Washington ed è amica di Wall Street è un’oppressione paragonabile a quella inglese da cui i padri fondatori si liberarono 240 anni fa.
Forse le diplomazie mondiali fanno bene a essere in massima allerta.