Fino a venerdì scorso, nel Regno Unito i sondaggi registravano in genere una tendenza in crescita costante del “Leave”, il fronte dei britannici a favore del Brexit, e parallelamente un calo lento ma continuo del fronte opposto del “Remain”, fino a rendere sempre più concreto e realistico, dopo settimane in cui era sembrato più improbabile, proprio lo scenario del divorzio di Londra dall’Unione. Nelle istituzioni Ue, dove da mesi si cercava di parlare il meno possibile del referendum britannico del 23 giugno, per non dare l’impressione di volerlo influenzare, l’ostentata “nonchalance” inziale basata sui sondaggi favorevoli al “Remain” cominciava a lasciare il posto a incertezza e fatalismo, a volte costernazione.
A Bruxelles, nella “bolla” comunitaria, e negli ambienti economici e finanziari che, così come anche a Londra, hanno sempre sostenuto l’unificazione del mercato europeo, l’uscita del Regno Unito dall’Ue veniva associata a scenari terrificanti più o meno credibili, con crisi di liquidità e turbolenze sui mercati peggiori di quelle seguite al crollo di Lehman Brothers, spinte alla disintegrazione europea e persino a uno spengleriano tramonto dell’Occidente di fronte alla globalizzazione trionfante.
Poi, l’assassinio in Inghilterra della parlamentare laburista Jo Cox, attivista dei diritti degli immigrati e militante convinta del “Remain”, ha sconvolto la campagna referendaria, costringendo tutti a una pausa. Si è fermato il fronte del “Leave”, che stava estremizzando sempre più i suoi messaggi incentrati sul rifiuto degli immigrati, e ha taciuto anche il fronte favorevole alla permanenza nell’Ue, che aveva puntato in gran parte proprio sulla paura delle conseguenze economiche disastrose per la Gran Bretagna, paventate in caso di vittoria del Brexit.
Diversi analisti pensano ora che l’orrore per l’uccisione di Jo Cox e un naturale sentimento di simpatia per la vittima potrebbero spostare a favore del “Remain” una quota importante del terzo fronte, quello, cospicuo e quanto mai cruciale, degli indecisi, in questi ultimi giorni che restano prima del referendum.
Alla ripresa della campagna, domenica sera, gli ultimi sondaggi fotografano un testa a testa fra i due campi avversi, con un possibile (ma ancora da verificare) arresto della doppia dinamica di salita del “Leave” e, inversamente, di discesa del “Remain”.
Nel frattempo, negli ultimi giorni tutta la stampa britannica si è schierata (come fa tradizionalmente alla vigilia di ogni appuntamento elettorale): Times, Guardian, Financial Times, Observer, Mail on Sunday, Daily Mirror e Sunday People, nonché, naturalmente, l’Economist a favore del “Remain”; dall’altra parte, per il “Leave”, ci sono il Sun, Sun on Sunday, Sunday Telegraph, Sunday Express, e anche il Sunday Times, nonostante la sua equilibrata copertura delle argomentazioni usate nella campagna referendaria, e il rigetto delle argomentazioni “di pancia” della propaganda anti immigrati.
A parte le conseguenze economiche e finanziarie, le turbolenze sui mercati, i “piani di contingenza” sicuramente anche se discretamente in preparazione (in particolare da parte della Bce e della Bank of England, preoccupate dai rischi per il cambio e la liquidità di euro e sterlina), a che punto sono i preparativi delle istituzioni per affrontare la grande crisi politica in cui una vittoria del Brexit precipiterebbe Bruxelles e le capitali Ue, oppure, in modo molto meno drammatico, per prendere atto della vittoria dell’europeismo “freddo” di Cameron, e dell’accordo di febbraio sulle riforme chieste da Londra per restare nell’Unione?
Le ore cruciali sono quelle fra le 5 e le 8 del mattino di venerdì 24 giugno, quando si saprà il risultato del voto. A Bruxelles, proprio alle 8 del mattino comincerà una riunione straordinaria della Conferenza dei presidenti del parlamento europeo (i capigruppo politici più il presidente dell’Assemblea, Martin Schulz). La riunione dovrebbe essere breve, giusto il tempo di dare un mandato a Schulz, che poi si recherà dal presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, insieme al presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, e al primo ministro del governo che esercita in questo momento la presidenza semestrale del Consiglio Ue, l’olandese Mark Rutte.
E’ molto probabile che i quattro ai vertici delle istituzioni Ue ricevano durante la loro riunione la telefonata del premier britannico David Cameron, che comunicherà loro i risultati del referendum.
A questo punto, se avrà vinto il “Remain”, vi saranno le congratulazioni dei partner europei a Cameron e un arrivederci all’imminente vertice Ue di Bruxelles previsto per il 28 e 29 giugno, dove i capi di Stato e di governo dei Ventotto non dovrebbero fare altro che mettere in vigore l’accordo di febbraio sulle riforme (e soprattutto l’impegno a varare norme sull’immigrazione interna all’Ue che lascino ai governi la possibilità di ritardare fino a quattro anni l’entrata dei residenti stranieri nei sistemi nazionali di welfare).
Molto più complicato è invece lo scenario che seguirebbe a una vittora del Brexit. Cameron dovrebbe comunicare ai rappresentanti delle istituzioni europee la volontà del suo paese di lasciare l’unione, e dare così il via – già al Consiglio europeo del 28 e 29 giugno – al negoziato con gli altri Stati membri per l’accordo sui tempi e nodi del “recesso” di Londra dall’Unione. Che avverrebbe comunque, come prevede l’Art.50 del Trattato Ue, entro due anni, a meno di un’intesa consensuale fra il Regno Unito e i Ventisette (all’unanimità) per un rinvio; un rinvio che comunque, logicamente, non dovrebbe andare oltre la fine dell’attuale legislatura del Parlamento europeo (maggio 2019).
Il premier britannico, tuttavia, potrebbe adottare una tattica diversa, non notificando ufficialmente ai partner dell’Ue l’intenzione del governo britannico di recedere dall’Unione, ma comunicando solo, informalmente, il risultato del referendum. In questo modo, suggeriva ad esempio l’editoriale pro-Brexit del Sunday Times di domenica, Londra manterrebbe un maggiore potere negoziale, non sarebbe sottoposta alla spada di Damocle del termine di due anni, e potrebbe continuare le trattative a oltranza, mantenendo ancora tutti i diritti di uno Stato membro.
Per evitare questa forzatura del Trattato, una possibilità a cui si sta pensando a Bruxelles è una risoluzione, che sarebbe votata dalla plenaria del Parlamento europeo in una seduta straordinaria prima del vertice Ue del 28 e 29 giugno, in cui si chiederebbe ai capi di Stato e di governo di considerare come notifica ufficiale della volontà di recesso da parte di Londra proprio la comunicazione sul risultato del referendum. Questo farebbe scattare inesorabilmente il l’avvio del conteggio dei 24 mesi, allo scadere dei quali il Regno Unito perderebbe lo status di paese membro. D’altra parte, secondo un’interpretazione letterale dell’Art.50 il negoziato non potrebbe neanche cominciare senza la notifica formale sull’intenzione di recesso (e dunque Londra non potrebbe pretendere di trattare con l’Ue senza aver fatto “partire l’orologio”).
Nel frattempo – se i rapporti non si saranno guastati a causa di questo possibile braccio di ferro -, Londra e i Ventisette potrebbero intendersi su un accordo di transizione che preveda il ritiro del governo britannico dal Consiglio Ue, oppure la sua astensione sistematica al momento delle decisioni. Una soluzione simile (ritiro o astensione sistematica) potrebbe essere prospettata anche per l’attività legislativa degli eletti britannici nell’Europarlamento. E non è escluso che vi sia anche un summit straordinario dei capi di Stato e di governo a luglio per mettere sui binari rapidamente tutti i negoziati settoriali necessari a portare a termine al meglio il divorzio consensuale, riducendo al massimo le conseguenze economiche negative per le due parti.
Se invece il negoziato per il divorzio consensuale dovesse essere bloccato o andare a rilento, o si concludesse senza un accordo e senza la decisione unanime di continuare a negoziare anche dopo la scadenza dei due anni, il Regno Unito rischierebbe di ritrovarsi nelle condizioni di un qualsiasi paese terzo. Perderebbe, tra l’altro, l’accesso privilegiato al mercato unico e i diritti per i propri cittadini di soggiornare e lavorare nel resto dell’Ue, mentre verrebbero ripristinate le barriere doganali e buona parte delle imprese straniere oggi installate sul suolo britannico (a cominciare da quelle automobilistiche) si trasferirebbero sul Continente. E’, evidentemente, l’incubo paventato dal fronte del “Remain”, ma anche uno scenario temuto dagli stessi partigiani del Brexit, che sanno bene di non poter dare per scontati rapporti facili e accordi rapidi con i partner europei dopo averli vistosamente schiaffeggiati.
Per i veri europeisti tuttavia, non è detto che la vittoria del “Remain” rappresenti un’alternativa migliore del Brexit. Perché, paradossalmente, il voto a favore della permanenza del Regno Unito nell’Ue è un voto contro l’Europa: è un voto contro il proseguimento dell’integrazione europea e a favore della restituzione agli Stati membri di gran parte della sovranità già ceduta all’Unione in molti settori, è a favore di una conduzione sempre più intergovernativa e sempre meno comunitaria delle politiche europee, è contro qualsiasi spinta federalista, qualsiasi ambizione verso una “unione sempre più stretta” dei popoli europei, è contro una vera e propria Europa politica. E’ un voto, insomma, contro quella che era l’intenzione originaria, la visione dei padri fondatori, il sogno degli Stati uniti d’Europa.
Jacques Delors, il più grande presidente che la Commissione abbia avuto nella sua storia, aveva paragonato l’Unione europea a una bicicletta: perché stia in piedi, bisogna pedalare. Se ci si ferma, cade. Se il 23 giugno i britannici voteranno a favore del “Remain”, gli europeisti potrebbero essere costretti a smettere di pedalare, scendere dalla bicicletta, mettere in cavalletto e lasciare che gli Stati membri la smontino e si portino via i pezzi, uno a uno, lasciando intatto solo il grande mercato unico.