di Maurizio Sgroi
Poiché l’eurozona è un caso di scuola, per come è nata e come si conduce, non dovete stupirvi nel notare la gran quantità di studi e ricerche che nell’ultimo ventennio, e in particolare da quando è esplosa la crisi, sono stati dedicati all’annosa questione di come farla funzionare. Fra i tanti ne ho scovato uno recente che vale la pena sottoporvi per la semplice ragione che proviene dagli economisti della BCE, la cosa più europea che conosco, e poi perché ha una ricetta semplicissima per far procedere le cose: lasciar lavorare la BCE, almeno nel breve periodo, fino a quando non saremo in grado, noi europei, di dotarci di istituzioni funzionanti.
Il paper si intitola “Macroeconomic stabilization, monetary-fiscal interactions, and Europe’s monetary union” e non va considerato nulla di più di quello che è: un’esercitazione accademica per provare a quadrare il cerchio di un’area economica che ha una banca centrale senza avere uno Stato. Tale caratteristica, che è stata la vera innovazione istituzionale rappresentata dall’eurozona, è insieme la croce e la delizia degli eurodotati, e di conseguenza il punto di partenza di qualunque analisi che si proponga di arrivare a soluzioni capaci di restituire una crescita decente a un territorio così vasto e così benestante e che malgrado la sua ricchezza (o forse proprio a causa della sua ricchezza) non riesce a emergere dalle secche di una stagnazione strisciante.
«L’eurozona ha attraversato un periodo prolungato di attività economica debole e inflazione molto bassa», notano gli autori, che sottolineano come ormai sia conoscenza comune, più volte reiterata dagli stessi banchieri centrali, che la politica monetaria da sola non basti a risolvere il problema. E poi come di recente abbia preso quota l’idea che a questo livello di tassi serva una politica fiscale accomodante per stimolare la crescita.
Ed ecco perché il paper ipotizza una strategia a doppio binario che mette insieme le cose. L’idea è semplice e si compone di due elementi distinti. Il primo è l’introduzione di un nuovo strumento finanziario, una sorta di eurobond non soggetto a default, emesso da un fondo dell’eurozona (tipo l’ESM per intenderci). Per asset non soggetto a default, gli autori intendono uno strumento che, emesso all’interno di una strategia di intervento politico, possa essere convertibile in moneta alla pari – in pratica monetizzato – analogamente a quanto avviene per le riserve in deposito presso la BCE. Emettendo questi asset, il Fondo potrebbe acquistare debito pubblico nazionale, sotto precise condizionalità. Inoltre, «il fondo, soggetto a un controllo democratico, potrebbe disporre di una limitata abilità fiscale uniforme fra gli Stati membri, ad esempio un piccolo sovrappiù sull’IVA» e potrebbe anche spuntare qualche ricavo da signoraggio dalla BCE. Notate l’inciso sul “controllo democratico”.
Il secondo elemento della strategia è che gli Stati dell’eurozona devono essere messi in grado di ristrutturare, se necessario, il proprio debito pubblico in maniera ordinata, potendo contare sull’assistenza del Fondo come acquirente di ultima istanza e come fornitore di risorse anche per il Risolutore unico dell’unione bancaria (SRM) nel caso sia necessario sostenere il sistema bancario in crisi dopo la ristrutturazione del debito sovrano, sfruttando il meccanismo unico di copertura di depositi per evitare corse agli sportelli.
«Si potrebbe sostenere – riconoscono gli autori – che un’istituzione che emette debito non soggetto a default già c’è, ossia la BCE, e che la soluzione più semplice sarebbe che questa istituzione agisse come descritto. Infatti un mix di policy, dove si combinano tassi bassi e espansione della base monetaria per comprare debito pubblico nazionale, come implementato dal public sector purchase programme, insieme con un accomodamento fiscale rimale un’opzione sensibile sul breve termine. Nel paper – concludono – noi spieghiamo come la struttura istituzionale che include il fondo appare preferibile nel medio lungo termine».
Provo a tradurre: intanto che c’è lasciate lavorare la BCE. Poi si vedrà.
Pubblicato sul blog dell’autore il 20 dicembre 2016.