Cosa hanno in comune il sindaco di Roma e il Presidente degli Stati Uniti? Più di quanto aspetto esteriore, retroterra socio-professionale e inclinazioni politiche possano lasciar supporre. Entrambi sono stati eletti, più o meno a sorpresa, sulla base di una piattaforma dichiaratamente anti-sistema. Andare a testa bassa contro l’establishment, di questi tempi, pare diventata una ricetta di successi elettorali quasi assicurati. Più incerto, invece, appare il destino che attende i vessilliferi dei manifesti anti-establishment una volta smaltita l’ebbrezza delle votazioni, quando subentra la sfida, e la fatica, del dover amministrare la Città Eterna (o guidare il Paese più importante al mondo – per tacere del pulsante rosso..) giorno dopo giorno.
Si fa campagna in poesia; si governa in prosa: un aforisma caro all’ex-governatore italo-americano Mario Cuomo, ripreso da Hillary Clinton la volta che le sue aspirazioni presidenziali si erano infrante contro la retorica alata del giovane Senatore dell’Illinois Barack Obama. Che potrebbe, debitamente adattato, sintetizzare il dilemma in cui si ritrovano sia la sindaca pentastellata sia il ‘Presidente ribelle’: per governare hanno bisogno di quell’establishment prendere le distanze dal quale è stata la carta determinante del loro successo elettorale.
È anche questa, in fondo, la chiave di lettura delle vicissitudini parallele che affliggono, fatte le dovute proporzioni, gl’inquilini di Casa Bianca e Palazzo del Campidoglio.
La costruzione laboriosa, per usare un eufemismo, dell’amministrazione capitolina, e quella altrettanto accidentata dell’esecutivo americano sono una spia tanto evidente quanto allarmante. Caricare a testa bassa contro i poteri costituiti – che siano la lobby del cemento, i media (bersaglio comune di grillini e trumpiani) o l’apparato militare-industriale – continua ad essere garanzia di popolarità; ma per avere un impatto politico che vada al di là della politica degli annunci (la parabola del controverso migration ban, redatto in fretta e furia dai guru della comunicazione, ne è un’ulteriore conferma), collaborazione e sostegno dei detentori delle necessarie conoscenze e competenze tecniche è un elemento indispensabile.
Indispensabile anche per la mera sopravvivenza. Come dimostrano i casi Marra, Romeo da una parte, Flynn dall’altra: collaboratori scelti a caso (a non voler accreditare letture meno benevole) o sulla base di criteri che anteponevano l’asserita lealtà personale ad ogni altra considerazione, dimostratisi nel giro di poco tempo palesemente inadeguati rispetto alle responsabilità. (è l’inidoneità di fondo e non altro, ad avviso di chi scrive, il motivo dell’allontanamento del Consigliere di Trump, per il quale l’inciampo della telefonata con l’Ambasciatore russo ha fornito un pretesto propizio per una decisione che, a detta di molti, costituiva solo questione di tempo).
Se il percorso parallelo che Trump e Raggi hanno davanti appare dunque in salita, e costellato d’incognite (tra le molte, per restare al Commander in Chief: la difficile compatibilità tra le sue tendenze al limite dell’eresia, e la visione più ortodossa propugnata dai Segretari di Stato e alla Difesa, per tacere del Vice Presidente Pence – non a caso figure più vicine al sistema di potere consolidato), questa situazione offre delle opportunità forse insperate all’establishment.
A quello romano – lo denotano i tentennamenti capitolini a proposito di stadi e candidature olimpiche – e, ancor più, a quell’UE che dell’establishment europeo globale è una delle espressioni più e riuscite, al punto da aver attirato su di sé, come è tristemente noto, gli strali polemici di Trump.
L’opportunità che si offre è su più fronti. Da un lato, quella di proporsi come il punto di riferimento, morale e politico, per quella parte dell’America (tutt’altro che minoritaria, come la sommatoria aritmetica del voto di novembre è lì a rammentare) che non si riconosce nella Presidenza-Trump. Dall’altro, di profittare del momentaneo vuoto di leadership per assumere maggiori responsabilità su scala internazionale, sfruttando anche la congiuntura di un europeo come Segretario Generale dell’ONU. Dall’altro ancora, di ribadire e rilanciare la cooperazione con l’Amministrazione in carica, stavolta non in nome di una comunanza di principi sempre più in discussione ma piuttosto all’insegna di una obiettiva convergenza d’interessi – l’approccio ‘transactional’ proposto dall’ARVP nella recente visita a Washington – in cui l’Europa potrebbe trarre paradossale giovamento dal disorientamento che è presumibile prevalga a Washington nei mesi a venire, per dettare la linea su alcuni dossiers d’interesse.
Saranno l’UE e i suoi leaders all’altezza delle circostanze e sapranno afferrare il lembo del mantello divino che gli passa accanto – dote quest’ultima dei veri statisti, secondo uno che se ne intendeva come Bismarck? Visti i precedenti e la portata delle sfide, specie domestiche, con cui sono alle prese, è lecito dubitarne. Però i nostri tempi ci hanno abituato alle sorprese: per una volta, potrebbero essere di segno positivo.