Roma – L’Italia non è un Paese moderno. E’ ferma a modelli che non esistono già più, a prassi e modelli di un’epoca spazzata via, forse anche troppo velocemente, dalle nuove tecnologie. I lavori sono già cambiati e cambieranno ancora, e c’è un bacino grande, grandissimo, di giovani senza lavoro incapaci di rispondere all’offerta occupazionale dei tempi correnti. Abbiamo un Paese che rischia seriamente di perdere la partita del futuro, peraltro già cominciata, perché inchiodata per la paura di cambiare. Bisogna vincere queste paure, avere il coraggio di gettare il cuore oltre l’ostacolo e disegnare l’Italia del domani. E’ l’indicazione fornita dagli ospiti del panel su “dati come driver di produttività, lavoro e innovazione in Europa” organizzato nell’ambito di “How can we govern Europe?”, l’evento di Eunews sul futuro dell’Europa.
“La vita è cambiata e migliorata grazie allo sviluppo tecnologico”, sottolinea Alfonso Fuggetta, direttore scientifico di Cefriel. “Certo ci sono rischi, ma i vantaggi sono così elevati e così grossi che devono essere gestibili, altrimenti non cogliamo le opportunità che ci sono”. Insomma, i benefici sono più dei costi, e questo da solo giustifica un cambio di passo, cambio di passo che però non c’è. “Prevale la paura, manca un aspetto positivo di questi fenomeni”. Ma prendere coraggio è fondamentale, perché altrimenti si resta irrimediabilmente indietro. “La dimensione digitale è una componente della società moderna, e quindi abbiamo bisogno di cittadinanza moderna”.
Il problema però è più profondo, rileva Fuggetta. “Il vero nodo è il cambiamento”. Se non si vuole cambiare non si cambia. E l’Italia non cambia. “Sapete quanti provvedimenti legislativi si fanno per un uso consapevole di tecnologie innovative e quanti provvedimenti a sostegno di vecchi modelli? Sapete quanti incentivi si danno a vecchi mestieri?”, si chiede.
Domande retoriche, quelle dell’ad di Cefriel, che trova una sponda in Mattia Fantinati, membro della commissione Attività produttive della Camera. “In questi anni dobbiamo scrivere la Costituzione sulla centralità dei dati, soprattutto per tutelare i più deboli”. Centra un problema, il deputato a 5 Stelle, noto come ‘divigital divide’, la differenza tra chi ha dati e sa usarli e chi no. I dati hanno anche una ripercussione sulla tutela dei consumatori. “Quando postiamo foto su Facebook la foto non è più nostra, ma è di Facebook. Ecco perché servono regole, sicurezza e chiarezza. Bisogna tutelare l’utente e informarlo”. Ma la vera rivoluzione del legislatore è il cambiamento tecnologico del funzionamento dello Stato. “Si parla di industria 4.0, ma manca una pubblica amministrazione 4.0. Ci sono tanti software diversi, manca un’infrastruttura”. Significa che la tecnologia non va demonizzata. “Il patrimonio del dato è importantissimo”, rileva il deputato pentastellato, ricordando casi di successo di “piattaforme che sulla centralità del dato fanno la loro fortuna, penso a iTunes”.
Abbiamo un problema culturale. Un qualcosa che non si risolve dall’oggi al domani, e oggi i dati – non quelli elettronici, ma quelli numerici – dicono che “abbiamo una terribile disoccupazione giovanile e abbiamo una terribile difficoltà a trovare personale qualificato da inserire nella nuova economia 4.0”, lamenta l’amministratore delegato di Engineering, Paolo Pandozy. L’Italia ha potenziale occupazionale non sfruttato. “Non è più la quantità del lavoro a fare la differenza ma la qualità e finalmente in Italia possiamo dire la nostra”. A patto che si faccia una riforma della scuola al passo coi tempi. Perchè “se i ragazzi frequentano le scuole giuste non avranno problemi a trovare lavoro”. Una sfida, certo, ma “serve sapere come gestire le nuove sfide, altrimenti non si perdono solo posti di lavoro ma intelligente”.
Cultura e paura frenano l’Italia. Spiegare come cambiano i tempi è la chiave per superare questi ostacoli, secondo il direttore generale di InfoCamere, Paolo Ghezzi. “La storia ci dice che le difficoltà arrivano dalle cose non spiegate. Per consultare ciò che scriviamo su fogli che pieghiamo e mettiamo via basta spiegare il foglio”. Una metafora che serve a capire una volta di più l’importanza di voler fare le cose. Se non serve, eccone un’altra ancor più pratica. Abbiamo i dati, abbiamo le informazioni. Se volessimo, tutti pagheremmo le tasse. Eppure c’è qualche ‘furbetto’ che evade o elude il fisco. “Per contrastare l’evasione fiscale non servono big data, serve la volontà politica di far pagare le tasse”. Ancora una volta un problema culturale. Un Paese vecchio, però, potrà mai pensare giovane? Le vecchie generazioni, fino a che punto potranno cavalcare i nuovi modelli? La sfida non sembra essere solo culturale.