Bruxelles – Com’era prevedibile l’uscita del Regno Unito dall’Ue porrà dei problemi contabili. Il prossimo bilancio pluriennale dell’Unione avrà i contributi di uno Stato in meno, e non un uno qualunque. Londra è attualmente il terzo Paese per risorse messe sul piatto (ma pure il principale membro a vedersi riconosciuto uno ‘sconto’, un parziale rimborso per le spese sostenute per il funzionamento dell’Ue). L’esecutivo comunitario ha già avviato il ragionamento sul prossimo bilancio pluriennale post-2020, consapevole della posta in gioco. Il commissario responsabile, il tedesco Gunther Oettinger, riconosce che “a causa della Brexit ci sarà una differenza tra i 12 e i 14 miliardi di euro l’anno”. Vuol dire risorse in meno, che si vanno a sommare a quelle che a Bruxelles stimano necessarie per l’immediato futuro. Immigrazione, controllo delle frontiere esterne, sicurezza e difesa. Tutte nuove sfide che richiederanno, secondo primi calcoli, attorno ai 10 miliardi di euro l’anno, anche se, ammette Oettinger, “è difficile poter stabilire quanto servirà per finanziare le nuove attività”. Vuol dire che potrebbe servire meno. O magari di più.
Dalle capitali iniziano ad arrivare i primi segnali di una discussione che si annuncia animata. L’Austria ha già fatto sapere di non volere mettere più risorse di quante ne mette finora, e potrebbe non essere l’unica a opporre resistenza alle richieste della Commissione Ue di aumentare i contributi nazionali per le casse comuni. L’attuale ciclo di bilancio del resto è il primo a essere stato votato, nel 2013, con meno risorse di quello precedente. Una delle opzioni a cui ragiona il team Juncker è l’ipotesi di trasferire una parte dei ricavi del sistema Ets di compravendita dei certificati di emissione dagli Stati all’Ue. Se ne parlò già nel 2010, ma non se n’è mai fatto nulla. Adesso si torna a valutare tale possibilità. Difficile capire fino a che punto i governi siano disposti a cedere riserve pecuniarie a Bruxelles. Sul fronte immigrazione, però, i Paesi che tanto si oppongono al sistema di redistribuzione dei richiedenti asilo troverebbero conveniente pagare piuttosto che farsi carico dei migranti. In quel caso la contropartita rischia di essere la mancata riforma del sistema comune di asilo e lasciare a Italia e Grecia il compito di gestire i flussi. Certamente il team Juncker valuta la possibilità di maggiori risorse proprio. Oettinger ha evocato una non meglio precisata tassa sulla plastica, a quanto pare fin qui un’ipotesi molto personale e poco collegiale. Oltretutto, un’arma a doppio taglio che rischia di alienare le simpatie degli europei.
La Commissione ha avviato delle consultazioni pubbliche per raccogliere suggerimenti. Un esercizio che l’esecutivo comunitario compie regolarmente prima di decisioni di grande rilievo, e non c’è dubbio che le questioni di bilancio abbiano una rilevanza enorme. Si tratta di non tanto di permettere il funzionamento dell’Ue, quanto di permettere all’Ue di finanziare le politiche a sostegno di territori e cittadini. L’unica cosa sicura in mezzo a tante incognite di un processo alle sue fasi iniziali è che in Europa “abbiamo un divario da colmare”, sottolinea Oettinger. Questo divario provocato dalla Brexit “non sarà colmato con debito né Eurobond”. E’ questa l’Ue del rigore e dell’austerità che fa fatica a uscire da un’impostazione di nordiche vedute.
Non sarà comunque tempo di revisioni di cicli. Vuol dire che il bilancio, anche dopo il 2020, resterà di sette anni e non cinque come Commissione e Parlamento Ue vorrebbero. Questo per ragioni pratiche, così almeno spiega Oettinger. L’idea è di discutere il bilancio pluriennale a metà legislatura, così da lasciare sempre il Parlamento nella condizione di lavorare i primi due anni e mezzo con il vecchio budget e i restanti due anni e mezzo sul nuovo budget. Per ragioni di calendario si potrebbe attuare il nuovo regime solo a partire dal 2024. Poi, forse, nel 2025 qualcun altro potrebbe entrare nell’Ue (Montenegro?), e allora ci sarebbe un piccolo, quasi invisibile, contributo nazionale in più.