A dimostrazione che la realtà non smette di superare l’immaginazione, mentre l’attenzione degli esperti era rivolta altrove, dalle fibrillazioni nucleari penisola coreana alle convulsioni assortite della regione mediorientale, l’Occidente è stato colto di sorpresa dalle manifestazioni di piazza che hanno scosso numerose città iraniane a cavallo del passaggio tra il 2017 e il 2018.
Immancabili i paragoni con le proteste del 2009, quando la popolazione, soprattutto le fasce più giovani delle aree urbane in special modo della capitale Teheran, aveva denunciato al mondo i brogli che avevano permesso al Presidente di allora, Ahmadinejad, di restare in sella malgrado un risultato elettorale quanto meno dubbio – per quanto la portata delle manifestazioni appare più contenuta rispetto a quelle di allora; e il Presidente-demagogo Ahmadinejad, contro il quale manifestavano i dimostranti nel 2009, è apparso ai più (comprese forse le stesse autorità di Teheran) come l’ispiratore dei moti di piazza di questa tornata, anche se forse, in una sorta di riedizione della favola dell’apprendista stregone, una volta scese per strada la folle sono sfuggite al controllo dei loro sobillatori.
Non si era neppure spenta l’eco degli ‘ooh’ di sorpresa, tuttavia, che altrettanto immancabile dai media occidentali si è levato l’appello ad essere vicini, se non solidali, alla protesta iraniana. Immancabile come la nota di disappunto e critica, che per una volta ha messo d’accordo funzionari dell’Amministrazione trumpiana e commentatori liberal dell’una e dell’altra sponda dell’Oceano, per la tiepidezza (timidezza?), giudicata eccessiva, della reazione europea.
Eppure, anche se è impossibile per chiunque abbia a cuore libertà e democrazia non provare sentimenti istintivi di simpatia per chi protesta contro la cappa di repressione ed inefficienza della teocrazia iraniana, ad una riflessione più approfondita è difficile giungere a conclusioni diverse da quelle che sintetizza in maniera particolarmente efficace la massima del giuramento d’Ippocrate: innanzitutto, non fare danni – ‘do no harm’, nella versione anglosassone; ‘don’t do stupid stuff” in quella del precedente inquilino della Casa Bianca, notoriamente riflessivo, secondo alcuni troppo cerebrale, sicuramente più prudente del suo più impulsivo successore.
Diversi argomenti, abbastanza convincenti, suggeriscono una buona dose di cautela. Innanzitutto, la perdurante incertezza su fattori, attori e dinamiche dei moti di piazza: se i manifestanti del 2009 erano portatori di istanze riformiste chiaramente identificabili, il quadro a distanza di otto anni è quanto meno sfocato, se non confuso. In secondo luogo, l’esperienza delle primavere arabe del 2011, e forse anche quella dell’inverno ucraino del 2014, dovrebbe avere insegnato che se le insurrezioni hanno una loro poesia al cui fascino è quasi impossibile sottrarsi, l’arte di governare, che costituisce l’imperativo post-insurrezionale nel caso in cui le manifestazioni abbiano raggiunto l’obiettivo di sovvertire l’ordine esistente, sono rette da una logica ben più prosaica e che puo’ portare, nelle ipotesi meno felici (il caso dell’Egitto è abbastanza istruttivo al riguardo) alla negazione di quelle stesse aspirazioni che erano alla base della manifestazione del dissenso. In terzo luogo, è tutto da dimostrare che il regime della Repubblica Islamica sia sull’orlo del collasso; al contrario, la pronta organizzazione di ‘spontanee’, oceaniche, manifestazioni filo-governative è sintomo di una sostanziale tenuta degli apparati, formali e informali, di gestione del consenso; e l’ondata repressiva che è già partita, e con ogni probabilità è destinata a comprimere ulteriormente lo spazio delle libertà civili nella società iraniana nei mesi a venire, sarà da intendere come prova di forza verso l’interno ed allo stesso tempo di compattezza verso l’esterno, a dimostrazione che i tempi per il ‘regime change’ a lungo atteso non sono ancora maturi. Ed è da supporre che le manifestazioni esterne di sostegno – come certi tweets d’oltre Atlantico – finiscano per rivelarsi uno strumento utile a compattare ulteriormente il regime, all’insegna dell’esigenza di sventare il complotto americano-sionista che, non a caso, la Guida Suprema Khamenei si è affrettato ad agitare -, e a fornire alla repressione un pretesto in più per arresti e persecuzioni.
Ciò significa che l’Occidente, o almeno l’Europa, deve restare indifferente rispetto all’ansia di cambiamento che percorre le società iraniana? Certo che no: ma occorre essere consapevoli che come tutti i processi di cambiamento, quello in atto in Iran è un percorso lungo e tortuoso in cui lo snodo attuale è probabile che non sia neppure decisivo. Almeno, è meno decisivo rispetto agli smottamenti che si produrranno nel momento futuro, verosimilmente non lontanissimo viste le voci ricorrenti sul suo precario stato di salute e vista comunque la certezza di un’età che avanza inesorabile, in cui Khamenei dovrà passare la mano.
Una partita complessa, allora, da giocare con cura e attenzione. Attenzione, soprattutto, a non far danni.