Roma – In attesa che mostri i suoi frutti più consistenti in termini di sviluppo economico del continente, il piano Ue di investimenti per l’Africa ha già fatto registrare un risultato non irrilevante: far crollare lo “steccato” che tradizionalmente separava il mondo del non profit e quello delle imprese. È questo uno dei meriti che Mario Giro, viceministro degli Esteri, ha riconosciuto all’iniziativa, ieri a Roma, aprendo alla Farnesina una conferenza sul tema organizzata da ‘Link 2007 – Cooperazione in rete’. “Come li aiutiamo a casa loro”, gli africani, perché non avvertano più il bisogno di migrare verso l’Europa? Domanda retoricamente l’esponente dell’esecutivo. “Chiedendo alle nostre imprese di mettersi insieme alle Ong per sfruttare gli strumenti messi a disposizione dall’Unione europea”, è la risposta che dà.
Quegli strumenti, ovvero il piano di investimenti per l’Africa, sono stati pensati perché “il trasferimento pubblico (della Cooperazione allo sviluppo) non basta più” e quindi “bisogna mettere insieme risorse pubbliche e private”, ha spiegato Stefano Manservisi, direttore generale della Dg Sviluppo e cooperazione internazionale della Commissione europea, illustrando nel dettaglio il sistema di garanzie sugli investimenti che, analogamente al Piano Juncker per l’Ue, stimoli i privati a mettere i capitali dove normalmente non andrebbero a investire. Per l’alto funzionario è necessario inoltre “utilizzare questi investimenti per affrontare l’insostenibilità” della globalizzazione per come è stata fin qui realizzata.
“Investimenti sì, ma investimenti sostenibili e che creino posti di lavoro decenti”, ha sintetizzato Roberto Ridolfi, funzionario della stessa Dg guidata da Manservisi e temporaneamente distaccato presso la Fao, proprio per avere un raccordo più ampio possibile delle politiche europee di sostegno all’Africa con il livello internazionale. Un segno di apertura confermato dal funzionamento del piano di investimenti Ue per l’Africa, che “da regolamento non preclude l’accesso ad aziende cinesi o statunitensi”, ha ricordato Ridolfi, perché lo scopo è coinvolgere più attori possibili.
Qual è però il ruolo che le Ong possono svolgere? A spiegarlo è stato Mario Raffaelli, presidente di Amref, secondo il quale il mondo del non profit può offrire “la conoscenza del territorio, il rapporto con le autorità locali e nazionali, la credibilità”, e “in cambio deve chiedere rispetto di quei criteri” di sostenibilità e dei “valori condivisi”. Un rispetto, ha precisato Raffaelli, che non si limiti al singolo progetto ma riguardi “la policy complessiva della singola azienda”.
Quanto al settore delle imprese, il quadro descritto da Laura Frigenti, direttrice dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, vede una dicotomia tra quelle di grandi dimensioni e quelle più piccole. “Abbiamo grossi giganti industriali che fanno grossissimi investimenti” in Africa, ha indicato la dirigente, ma la gran parte del nostro sistema produttivo “è formato da imprese che faticano ad affacciarsi a questa dimensione” di investimento e dunque “vanno accompagnate”. Compito che la stessa Frigenti assume a nome dell’agenzia che dirige.
Eni ed Enel sono tra i “giganti” citati dalla direttrice, ed entrambe le imprese hanno portato il loro contributo alla discussione. Per il cane a sei zampe ha parlato Alberto Piatti, vicepresidente esecutivo della divisione Impresa responsabile e sostenibile di Eni, elencando alcune delle iniziative sostenute in Africa nell’ambito della salute, dell’educazione e della formazione. “Abbiamo la responsabilità di favorire la crescita e di accompagnare i Paesi che ci ospitano creando valore a lungo termine”, ha riconosciuto il manager lanciando l’invito a “uscire dall’ottica dell’intervento in Africa come pura carità”.
In sintonia con Piatti, Maria Cristina Papetti di Enel conferma il convincimento che “se vuoi stare sul mercato nel lungo periodo devi essere sostenibile”, e dunque “generare valore per te ma anche per gli altri”. Rivendicando il ruolo di Enel come “primo operatore per le rinnovabili in Africa”, Papetti ha sottolineato che “non ci sono soluzioni già pronte” e da applicare a ogni realtà per favorire lo sviluppo del territorio. Per questo ha rimarcato la necessità di un approccio che tenga “conto delle istanze di tutti gli stakeholder nei Paesi in cui si opera”.
Bisogna mantenere un rapporto stretto con la realtà locale, dunque. Ne è convinto anche Giordano Emo Capodilista, dirigente di Confagricoltura, che si è spinto ancora oltre, nella convinzione che “tanto più il modello sociale in africa è sicuro e le risorse sono distribuite al suo interno, tanto più l’investimento è sicuro”. La conseguenza, ha indicato, è che “le imprese saranno più sicure se sapranno far sì che ciò che viene prodotto riesca a essere venduto in gran parte nel paese dove si opera”. È uno dei suggerimenti che Confagricoltura darà ai propri associati, verso i quali l’organizzazione si è impegnata a promuovere il piano Ue di investimenti in Africa. Stesso impegno preso da Stefania Marcone, vice presidente di Cooperatives Europe ed esponente dell’Alleanza delle cooperative italiane, convinta sia “fondamentale il coinvolgimento dell’economia sociale e della società civile” dei Paesi in cui si intende operare, già nella fase di “selezione dei progetti”.
L’intero piano Ue per l’Africa non potrebbe però funzionare senza le banche per lo sviluppo che hanno un ruolo essenziale tanto nella selezione, nell’assistenza e nel finanziamento dei progetti che possono godere della garanzia Ue. Un compito che per l’Italia è affidato a Cassa depositi e prestiti. “Il nostro obbiettivo è usare il limitato capitale pubblico che abbiamo a disposizione in Italia e a livello europeo per stimolare capitali privati” a intervenire in Africa, ha riassunto la dirigente Antonella Baldino. Sono due, a suo avviso, gli elementi necessari: strumenti di investimento adeguati e “un assetto di allocazione del rischio in grado di attrarre investitori privati”.
Se si riuscirà a implementare il piano di sviluppo per l’Africa, i risultati che è lecito attendersi sono notevoli. Basti pensare ai dati riportati da Salvatore Rebecchini, presidente di Simest, la società del gruppo Cassa depositi e prestiti che si occupa di promuovere gli investimenti della aziende italiane all’Estero. Per citarne giusto alcuni, “i 62 investimenti di Simest con partner italiani in Africa hanno creato 19mila posti di lavoro”, e ogni milione di euro investito “ha generato 2 milioni di gettito fiscale in loco”.