Di Emmanuela Banfo per Affari Internazionali
Roma – Paesi meno scolarizzati attirano migranti meno scolarizzati. Viceversa, i Paesi più preparati calamitano immigrati meglio preparati. L’Italia , che ha una forza lavoro autoctona con appena il 19% di laureati, ha un tasso di lavoratori ltra gli immigrati pari al 14%, il più basso dell’Unione europea. Il secondo Migration Observatory Report su ‘Immigrant Integration in Europe and in Italy’ evidenzia la forte correlazione dei flussi migratori con il livello d’istruzione dei nativi della nazione ospite.
Un gap che stenta a colmarsi anche nelle seconde generazioni
Un dato preoccupante è il gap linguistico-culturale che stenta a colmarsi anche nelle seconde generazioni di immigrati che in contesti familiari continuano, in media nel 45% dei casi, a parlare la lingua d’origine, a seguire le televisioni dei propri Paesi, a vivere da stranieri in un Paese che probabilmente sentono ancora estraneo.
Se è comprensibile e legittimo tenere salde le radici come parte della propria identità, è allarmante se ciò avviene come reazione all’impermeabilità del sistema, all’ostilità o alla miopia politica del Paese ospitante.
Il dossier del Collegio Carlo Alberto – Centro Studi Luca d’Agliano e il dibattito che ha suscitato offrono spunti di analisi che vanno ben al di là del suo tema specifico, quello dell’integrazione economica. Negli Anni Novanta gli albanesi che raggiungevano le coste italiane avevano acquisito le basi della lingua italiana seguendo i programmi televisivi italiani e sulle coste della Tunisia o dell’Egitto frotte di ragazzini accoglievano i turisti italiani al grido “Italia Uno”.
Abituati a pensare alla televisione come elemento unificante, come al mezzo di comunicazione che ha dato un forte contributo alla ricostruzione dell’Italia del secondo dopoguerra facendo passare il numero di analfabeti dal 21% del 1931 all’8% del 1961 (dal ’60 al ’68 un milione di persone conseguì il diploma di scuola elementare), riesce difficile capire come la televisione possa rischiare di passare, nell’epoca della globalizzazione e delle reti satellitari, ad essere un freno all’integrazione. Gli input venuti dalla ricerca accendono i riflettori su aspetti comportamentali e di vita sociale che solo in apparenza possono sembrare minimali.
I ritmi dell’integrazione nell’occupazione e nell’istruzione
Il dossier, avvalendosi dei dati della European Labour Forxe Survey, evidenzia che mentre l’assimilazione occupazionale è più veloce di quanto si possa dedurre dalle narrazioni giornalistiche, ovvero nel 2017 in linea con quella degli italiani, il trend è peggiorato nel tempo sui livelli d’istruzione.
Fermo restando – come rileva il Rapporto – che più della metà degli immigrati dell’Unione europea sono europei e il 23% è nato in Africa o Medio Oriente, il 12% in Asia e l’11% in America e Oceania, i livelli d’istruzione sono regrediti in tutte le aree d’origine. Il divario tra immigrati e nativi non è tanto, quindi, sul tasso di occupazione, che da 40 punti percentuali per i nuovi arrivati si azzera entro il sesto anno di residenza, ma sui profili professionali e sul salario.
Se nel 2017 il tasso di occupazione di nativi e immigrati è stato simile (65% e 64%), tra il 2009 e il 2017 la probabilità di occupazione dei nativi è cresciuta di 1,5 punti percentuali, quella degli immigrati è diminuita di circa 4 punti. Il cambiamento è spiegato dal peggioramento dei profili degli immigrati per età e istruzione, oltre che dalla crisi. A incidere particolarmente, inoltre, è il tasso di occupazione delle donne immigrate, che spesso migrano per motivi familiari.
La differenzia di stupendi persiste, anche a parità di occupazione. Due anni dopo il loro arrivo gli immigrati guadagnano il 12% in meno, dopo vent’anni il 9%, divario causato in gran parte dalla prevalenza del part-time. L’impressione è di una generale compressione verso il basso.
Bisogna formare manodopera più qualificata, ma soprattutto abbandonare la logica dell’emergenza continuando a parlare di “crisi dei rifugiati”, prendere atto che l’immigrazione è un fenomeno strutturale non passeggero e che il compito principale è ragionare sul modello di sviluppo, e di integrazione, su cui investire.
Entrano in gioco Eurydice e Auditel
Gli immigrati sono di fatto, realmente, parte di questo processo. In primavera 43 Paesi della rete Eurydice s’interrogheranno sull’integrazione degli alunni stranieri nelle scuole e considerazioni più precise sul consumo televisivo degli stranieri si avranno quando saranno a disposizione le rilevazioni Auditel che li ha inseriti nel campione.
Oggi il 9,2% della popolazione scolastica italiana- secondo le ultime statistiche ministeriali – è straniera, pari a 814.851 bambini e ragazzi dalle scuole d’infanzia alle secondarie di II grado. Nonostante tutti gli sforzi e miglioramenti, si calcola che a 14 anni il 46% degli studenti stranieri frequenti ancora le medie inferiori, a 18 anni il 69,6% è in ritardo nel percorso scolastico. Nel frattempo scuole e televisione pubblica si sono attrezzate e stanno lavorando per affrontare una sfida che mette in gioco il futuro di tutti.