Chi scrive, pur non condividendo certi panegirici oggettivamente imbarazzanti che erano circolati su Emmanuel Macron nei mesi immediatamente successivi alla sua elezione all’Eliseo circa un anno fa, ritiene che per il giovane Presidente francese si possa e si debba nutrire, accanto al rispetto che è dovuto alla massima carica di un grande Paese (e potenza nucleare), una buona dose di sincera ammirazione. Per essere riuscito a prevalere in una competizione elettorale complessa partendo quasi da zero, anche se la candidatura dell’allora sconosciuto (ai più) leader di ‘En Marche!’ ha potuto contare sul sostegno discreto, ed alla fine tutt’altro che irrilevante, di un establishment desideroso di novità rassicuranti. Per la capacità che ha dimostrato nel gestire i rapporti con protagonisti della scena internazionale diversissimi tra loro e non facili da trattare, entrando nelle grazie di ciascuno di loro, come Trump, Putin, e Angela Merkel. Per l’ambizione per certi versi spregiudicata, e al tempo stesso doverosa, che ha saputo imporre agli obiettivi dell’azione politica sia interna che internazionale, restituendo alla Francia un’ebbrezza di protagonismo forse illusoria, ma neppure del tutto velleitaria. Un’ambizione sorretta da una retorica altrettanto spregiudicata, arricchita da citazioni colte, da simbolismi di sicura efficacia (su tutti il discorso sullo sfondo del Partenone: un richiamo forse inconsapevole, forse voluto, all’esortazione del suo predecessore Giscard a non lasciare Platone fuori dall’euro), da enumerazioni a volte compulsive, e quasi bulimiche, di obiettivi gettati avanti un po’ alla rinfusa nella speranza che, come con la pesca a strascico, consentano di portare a casa qualche risultato purchessia.
Il discorso di martedì alla plenaria dell’Europarlamento di Strasburgo è stato una conferma delle doti oratorie del Presidente francese, ed in particolare della sua predilezione per le immagini forti, che lasciano un segno nell’immaginazione e nella memoria (oltre che nei titoli dei giornali del giorno seguente): l’allarme per la guerra civile alle porte, la fede nell’autorità della democrazia, l’appello per una sovranità europea – persino declinata, con un volo pindarico di troppo, in un’accezione climatica per sua natura forse refrattaria a riduzioni ‘sovraniste’.
Parole suadenti, metafore alate che hanno sortito l’effetto desiderato di affascinare l’uditorio e di guadagnare attenzione e visibilità al loro autore. I fatti, però, sono non meno eloquenti. A volte, lo sono di più: come dicono gli inglesi, parlano a voce più alta delle parole. E i fatti dicono che su una questione in cui ci si sarebbe potuti attendere che il Presidente francese iniziasse a mettere in pratica la sua invocazione di sovranità europea, l’imperativo morale e politico di non lasciare senza risposta i drammatici fatti di Douma in Siria, Macron ha preferito fare da solo, limitando la consultazione a Stati Uniti e Regno Unito, con cui ha poi coordinato la risposta militare, (e tutt’al più con la Germania, che ha poi preferito astenersene) anziché rivolgersi agli altri partners dell’Unione.
Si dirà che il rituale canonico delle decisioni da prendere a Ventotto si è dimostrato troppe volte una ricetta per l’inazione o l’inconcludenza per meritare di essere preso in seria considerazione in situazioni di crisi, che richiedono risposte chiare e rapide. Né si può attendere da uno Stato come la Francia, con una certa idea del suo ruolo nel mondo, anche di paladino del diritto internazionale, dei diritti dell’uomo e della responsabilità di proteggerli anche con la forse quando serve, di rinunciare a certe prerogative, che discendono peraltro dall’appartenenza alla categoria privilegiata dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Tutto vero: ma è altrettanto legittimo dubitare, alla prova dei fatti, della sincerità di certe professioni di fede europeista. Ed interpretare uno dei passaggi più ispirati di uno dei discorsi più noti della produzione macroniana, quello della Sorbona dello scorso settembre in cui aveva proclamato ‘l’Europe, c’est nous’, come la riedizione riveduta e corretta, con il ricorso al pluralis modestiae per il Presidente-Giove, del motto caro al Re-Sole, ‘l’Etat, c’est moi’.