L’accordo Brexit tra Unione europea e Gran Bretagna non si farà. Almeno, non nei prossimi mesi o anni. Sappiamo di rischiare a scrivere un’affermazione così netta, da troppi anni ci occupiamo di politica per non sapere che questo è il regno del “mai dire mai”. Ma è necessario, a questo punto, tentare di analizzare le cose stando ai fatti e non considerando le speranze o le possibilità più remote, come è quella di un accordo.
Oggi la premier britannica Theresa May ha reso pubblico il fallimento del negoziato, dicendo al gabinetto che non cercherà di concludere “ad ogni costo” un accordo di separazione, e che “mentre il 95 percento dell’accordo sul ritiro è stato concluso, sul backstop per l’Irlanda del Nord ci sono una serie di questioni su cui dobbiamo ancora lavorare e queste sono le più difficili”. Parole del suo portavoce, riportate da Reuters dopo una riunione di gabinetto nella quale non è stata presa nessuna decisione.
Dunque: siamo al 6 novembre, al 29 marzo mancano circa quattro mesi e venti giorni, durante i quali, oltre a trovare un accordo, lo si dovrebbe far approvare dal Parlamento britannico e da quello europeo. Non è aria, soprattutto lo scoglio Westminster sembra insuperabile. Mentre a Bruxelles Antonio Tajani, nell’adoperarsi per offrire ai negoziatori tutto il tempo possibile fino all’ultimo istante, assicura che basterebbe poco tempo agli eurodeputati per votare, dato che c’è una task force che segue il negoziato giorno per giorno, a Londra nessuno è in grado di dare assicurazioni sui tempi e soprattutto sull’esito. Tra l’altro il negoziato è sostanzialmente fermo da giorni, a nessuno è venuta un’idea per risolvere questo problema impossibile del confine irlandese. Gli europei, giustamente, sono fermi nella posizione che la Gran Bretagna non può scegliere lei come stare nei vari accordi dell’Unione: ci sono principi e regole che valgono per tutti. I britannici non hanno un’idea chiara, ma i brexiters, quelli che hanno creato questa situazione senza valutarne con un minimo di attenzione e buona fede le conseguenze, sono ben determinati nel non voler partecipare a nulla che li vincoli troppo nei confronti dell’Unione. E’ una spiegazione ridotta all’osso, ma le cose stanno così, le varie sfumature che attraversano gli schieramenti politici britannici si scontrano sempre con le divisioni profondissime all’interno dei conservatori e anche tra i laburisti, spiegano perché a Londra una posizione unica nella maggioranza (che politicamente neanche c’è) o nell’opposizione, non la si riesce a prendere.
Cosa succederà ora?
Passerà ancora qualche settimana, poi si troverà una via d’uscita politica per dire che è necessario fare degli accordi d’emergenza, perché non si può convivere fianco a fianco senza avere nessun tipo di relazione formalizzata che non siano le regole del Wto (che ad esempio impongono le dogane “dure”) o del diritto internazionale.
A livello di Paesi dell’Ue i piani di emergenza sono allo studio da tempo, la Germania lo ha annunciato ufficialmente, e i rappresentanti dei 27 a Bruxelles stanno in queste ore organizzando incontri per affrontare i singoli temi sui quali si ritiene prioritario ed urgente stilare delle intese con Londra.
Il primo tema sul tavolo è quello dei diritti dei cittadini: un’intesa, dicono i negoziatori, è stata raggiunta, ma in realtà esistono ancora alcune zone d’ombra che andranno illuminate. Non è possibile che il milione di britannici residenti nel Continente ed i tre milioni di europei nelle isole si trovino da un giorno all’altro senza uno status oggi garantito dal fatto di essere cittadini dell’Unione. Improvvisamente, gli uni e gli altri, si troverebbero senza più protezioni sanitarie, previdenziali, senza diritti politici attivi e, anche, passivi. Dunque questo tema va affrontato e risolto prima del 29 marzo.
Poi c’è la questione dei trasporti. Gli aerei di bandiera britannica non avrebbero più la possibilità di atterrare nell’Unione se non ci sarà un accordo che salvi almeno le parti fondamentali delle intese in vigore. E i Tir? Da mesi gli amministratori locali delle regioni di Dover e di Calais mandano appelli disperati per dire che senza un’intesa su quella dogana si rischiano file di centinaia di chilometri che bloccherebbero di fatto il passaggio. Lì qualcosa si deve fare, ma il problema non è alla fine dissimile da quello della frontiera irlandese.
Questione finanziaria. Come potranno le imprese britanniche operare in Europa? E vice versa? Anche questo è uno scambio che non si può fermare. Per non dire dei soldi che Londra deve pagare a Bruxelles per gli impegni presi in quanto Paese membro anche per gli anni che vanno oltre il 29 marzo prossimo.
Per alcuni Paesi la questione degli accordi d’emergenza è più urgente che per altri, vedi l’Olanda, il Belgio, la Francia e anche la Germania.
Cosa succederà poi è tutto da vedere, nel senso che dovremo assistere a quanto accadrà ad esempio al governo britannico. May resterà in sella in caso di no deal? Si andrà ad elezioni? Chi le vincerà? Ci sarà una rinascita dell’Ukip? Qualche nazione del Regno Unito, tipo l’Irlanda del Nord, sceglierà di abbandonare Londra? Ci saranno nuovi scontri a causa della chiusura del confine irlandese? La Gran Bretagna ha già segretamente negoziato (perché ora le è vietato farlo) nuovi accordi con qualche Paese terzo? Chi sarà il prossimo negoziatore per l’Unione europea dopo le prossime elezioni parlamentari di maggio e la nascita della nuova Commissione europea a novembre?
Prevedere il futuro, anche se prossimo, ora è imprudente. Meglio cercare, con lucidità, di gestire almeno il futuro più immediato. Marzo è domani.