Bruxelles – Dove sono finiti gli investimenti per lo sviluppo di nuove tecnologie e il progresso tecnico-scientifico? L’Europa spende di più, eppure gli indici sono negativi. I dati Eurostat parlano chiaro: nel 2017 gli Stati membri dell’Unione europea hanno speso complessivamente quasi 320 miliardi di euro in ricerca e sviluppo. Rispetto al Prodotto interno lordo l’intensità, come si chiama in gergo, vale a dire la quota di risorse destinate a questo settore specifico, è aumentata. Si è attestata al 2,07% nel 2017, in aumento rispetto al 2016 (2,04%) e ai valori di dieci anni prima (1,77% nel 2007).
Eppure, guardando la composizione della spesa emerge che governi e università hanno ridotto i fondi, e gli unici a credere ancora in studi di laboratorio sono gli industriali. Colpa certamente della crisi, che ha chiuso i rubinetti alla liquidità e alle disponibilità per istituti ed enti. Segno che gli aumenti nella spesa per la ricerca e lo sviluppo sono stati inferiori agli aumenti della ricchezza complessiva. Fatto sta che il mondo delle imprese commerciali continua a essere il principale in termini di spesa (il 66% del totale del 2017), seguito dal settore dell’istruzione superiore (22%), dal settore pubblico (11%) e dai privati -profit settore (1%).
L’Italia non fa eccezione. La ricerca è sempre più industriale, sempre meno di governo, e sempre secondariamente affidata al mondo universitario. Nel complesso, come sistema Paese l’Italia risulta dodicesima nell’Ue per spese dedicate a ricerca e sviluppo in rapporto al Prodotto interno lordo, ma quarta in termini assoluti. Nel 2017 l’Italia ha speso 23,3 miliardi di euro, meno della metà della Francia (50,1 miliardi) e quasi tre quarti in meno di quanto investito dalla Germania (99 miliardi).