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Home » Editoriali » Populismo ecologico: cul-de-sac tra sostenibilità ambientale e redditività elettorale

Populismo ecologico: cul-de-sac tra sostenibilità ambientale e redditività elettorale

Dal 2015, anno della firma degli Accordi di Parigi, si sono succedute elezioni cruciali in paesi-chiave nella strategia globale sul clima, ridefinendo, in modo più o meno netto, equilibri politici interni e relative agende di governo in materia

FISE di FISE
1 Febbraio 2019
in Editoriali

Di Michele Valente

La marginalità, o peggio, la subalternità dei temi ambientali e climatici alle questioni economiche e alle dispute politiche, dovrebbe di per sé suonare come un campanello d’allarme, se non fosse suffragata da dati ancor più drammatici che impongono un’azione immediata. L’IPCC, l’agenzia delle Nazioni Unite sul clima, avverte, in un rapporto pubblicato lo scorso anno, che restano solo 12 anni per limitare la temperatura globale a 1,5 ‘C, rallentando gli effetti della ‘catastrofe climatica’. Responsabile, dicono gli esperti, dello scioglimento della calotta polare, oltreché incidente sulla siccità, le alluvioni e la conseguente povertà diffusa in aree del Pianeta ad alta intensità migratoria – questione, quest’ultima, ancora insoluta, dal momento che da anni si dibatte sul (necessario) riconoscimento dello status di rifugiato climatico/ambientale. Dal 2015, anno della firma degli Accordi di Parigi, si sono succedute elezioni cruciali in paesi-chiave nella strategia globale sul clima, ridefinendo, in modo più o meno netto, equilibri politici interni e relative agende di governo in materia.

  1. Stati Uniti: il presidente Donald Trump ha inaugurato una forte discontinuità rispetto al passato, con prese di posizioni oltranziste – tradottesi nell’uscita dagli accordi sul clima della COP21 – sconfessando a più riprese le principali istituzioni scientifiche sull’emergenza climatica, testimoniata dai roghi che hanno duramente colpito la California, oltreché dando preminenza ad una visione di breve periodo, incentrata sul mantenimento del ‘patto di ferro (e acciaio)’ con il bacino elettorale più solido, quel  tessuto sociale a bassa scolarizzazione della cosiddetta Rust Belt;
  2. Francia: le questione ecologiche stanno frammentando il Paese e le mobilitazioni dei gilet jaunes sono il risultato di una ‘transizione ecologica’ poco compatibile sul piano sociale, che, tuttavia, resta cardinale nell’agenda di governo del presidente Macron, come ribadito dal ministro dell’ambiente François de Rugy nella recente Conferenza europea sulla transizione energetica, dove ha aperto all’introduzione della ‘carbon tax’ – tra le questioni più spigolose lanciate dalla presidenza nel Grand débat national – al fine di ridurre i livelli atmosferici di CO2;
  3. Germania: in linea rispetto agli obiettivi della COP21, ribaditi nella scorsa COP24 di Katowice, – riporta un articolo del The Guardian – il Paese porrà fine, entro il 2038, alla dipendenza energetica da combustibili fossili, pari al 40% della produzione nazionale, fornita da centrali a carbone, mentre sul fronte politico, Alleanza90/I Verdi sono, stando ad un recente sondaggio, il primo partito in molti Länder orientali, più vicini all’elettorato “dal punto di vista dei contenuti”;
  4. Italia: il governo M5S-Lega è diviso sulla questione delle infrastrutture (TAV) e sull’impatto ambientale delle concessioni petrolifere off-shore. Gli attriti con la Francia e l’interesse strategico nazionale sull’Alta Velocità si scontrano con visioni contrapposte nelle rispettive constituencies – da un lato, gli imprenditori del Nord, favorevoli alla conclusione del progetto, dall’altro, la base del Movimento contraria all’opera, seguendo l’originaria vocazione ecologista.

Proteste e simboli nell’ambiente politico

Di fronte all’incapacità nelle sfide ambientali degli esecutivi nazionali, crescono movimenti organizzati a livello locale e transnazionale. Non solo casi mediatici o (isolati) flash mobs: le proteste dei gilet gialli francesi, in strada da settimane, hanno sortito l’effetto di neutralizzare l’aumento delle accise sul carburante, assumendo una valenza politica d’opposizione apartitica – ‘populista’, nel suo significato originario – contro il governo. Al contempo, migliaia di attivisti in 95 paesi nel mondo hanno risposto alla chiamata di #RiseForClimate, da manifestazione contro le politiche dell’amministrazione Trump a forum globale che, entro il 2020, organizzerà meeting locali sui temi ambientali.

Come segnalato in diversi studi in materia, propaganda anti-scientifica e polarizzazione politica hanno trovato terreno fertile in Rete. Le questioni climatico-ambientali sono inglobate nell’efficace retorica del ‘left behind’ (‘lasciati indietro’), diretta dai populismi di destra alle élites politico-economiche cosmopolite, fautrici di un ecologismo globale che mistifica la realtà (esclusiva) della globalizzazione.

Unione europea, ‘gigante zoppo’ nelle politiche verdi

Come rilevato da Eurobarometro (2017), le minacce climatiche non lasciano indifferenti i cittadini dell’Ue: 9 su 10 le vedono come un ‘problema serio’. Il terzo, in ordine di emergenza, seguito solo da povertà (28%) e terrorismo (24%), ma concausa del primo, data l’incidenza sul deperimento delle risorse naturali.

Il 90% degli intervistati è sensibile al problema e, data l’alta predisposizione alla mobilitazione per l’ambiente (49%), occorre promuovere campagne informative per contrastare tesi anti-scientifiche e disinformazione. Nel disordine globale, è tempo per l’Ue di assumere un ruolo-guida nelle politiche su clima e ambiente, adottando una visione pragmatica delle strategie di sviluppo sostenibile, come delineate negli obiettivi (SDG’S) dell’Agenda ONU 2030.

Tags: climaelezioniitaliaTrump

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