Bruxelles – La questione Brexit esce sempre più allo scoperto nella sua vera sostanza, denunciata da tempo e da tanti: è una questione di partito, di lotta intestina tra i Conservatori. Qualcuno tra loro, ed anche tra i Labour, è forse in buona fede quando sostiene la necessità di abbandonare (ma poi come, con quali intese future?) l’Unione europea, ma la gran parte sta solo conducendo una battaglia interna per il controllo del partito, che è in buona parte lotta di potere ma è anche espressione di un sistema che vede i partiti, i due partiti principali, come vera anima, come base di stabilità, del Paese. Molto più del Parlamento, molto più delle cose che si spiegano ai cittadini.
E così oggi questa assurda storia si trova di fonte ad una scelta che sembra senza senso: la premier promette che se vincerà allora si dimetterà, pur senza dire quando. Theresa May ha assicurato che se, alla terza votazione, il suo accordo con l’Unione europea passerà allora lei lascerà la guida del governo. Fatto fare il lavoro “sporco” a lei (che votò a favore del Remain) i leader del Leave sono pronti a prendersi la guida del partito, e del governo, che rifiutarono tre anni fa, dopo le dimissioni di quel fenomeno di David Cameron. In prima fila c’è Boris Johnson, che ha già detto che a queste condizioni allora potrebbe votare a favore dell’accordo, pronto, in una cosa con Michael Gove e Jeremy Hunt, ad insediarsi a Downing street. Dunque ecco che, magicamente, l’interesse del Paese che queste persone dicevano di voler tutelare bocciando quell’intesa, all’improvviso diventa proprio quello di approvare l’accordo bocciato due volte, come se il problema del confine in Irlanda fosse legato alla presenza di May al governo. E’ evidente che non è così, e tutto questo è molto deludente. E’ un altro esempio di populismo, questo in giacca e cravatta, col diploma dell’Eton College, con i soldi portati all’estero di brexiters più facoltosi, ma sempre a discapito degli interessi del Paese.
Il quale Paese, così come rappresentato alla Camera dei Comuni, ieri sera non ha saputo esprimere alcuna proposta alternativa. Negli otto voti su proposte di indirizzo ha sempre prevalso il “no”, nessuna nuova idea è passata, né quella di partecipare all’unione doganale (perpotto voti) ne quella di un nuovo referendum (per una trentina di voti) ne’ quella di lasciare l’Ue senza un accordo (per parecchie centinaia).
Domani, venerdì 29, dovrebbe dunque esserci un voto sull’accordo. A poche ore da domani si sa solo che probabilmente ci sarà un voto, ma la leader dei conservatori in Parlamento, Andrea Leadsom, ha solo annunciato, facendo essa stessa qualche confusione sulle date, che: “La mozione presentata sarà conforme alle richieste del presidente (dell’Assemblea John Bercow, ndr), ma l’unico modo in cui ci assicuriamo di lasciare l’UE in tempo utile il 22 maggio è approvare l’accordo di ritiro entro le 23:00 del 29 marzo, che è domani. È fondamentale che fare ogni sforzo per implementarlo e permettere alla Camera di discutere questo importante problema”. Nella confusione più assoluta di un governo evidentemente inadeguato governo e del Parlamento.
Dunque, come avevamo scritto in questo giornale, il Parlamento non ha preso nessun controllo del processo, ma anzi, lo ha rinsaldato nelle mani di un gruppo di brexiters. Gruppo che però non sarà sufficiente a far passare l’accordo, e Theresa May è ancora lì che negozia con i dieci irlandesi del Dup per avere quei voti che le servono per far passare la sua proposta. Che, se passerà, lo farà di un soffio a quanto pare: sette, otto voti? Il futuro di un intero Paese in mano a qualche deputato di un piccolo partito locale, che magari cederà in cambio di qualche soldo in più per le sue politiche locali.
E secondo i sondaggi i cittadini britannici sono contenti così: i conservatori sono sempre il primo partito, e l’apprezzamento verso il governo è ampio.