Con i gilet gialli, lui, non è andato fino in fondo. Poi ha lusingato la sinistra, e non è andato fino in fondo. Poi ha detto “chi è indagato è fuori”, e non è andato fino in fondo. Avrà una delusione Luigi Di Maio se pensa che l’Unione europea non andrà fino in fondo nella procedura per il debito. Lo ha già fatto, anzi, e il presidente della Commissione europea ha sottolineato che “abbiamo chiarito che l’Italia si sta muovendo su un percorso insano. L’Italia è a rischio di restare per anni sotto procedura per debito eccessivo”. Diretto, esplicito.
Ora la parola sta all’Italia, che deve andare fino in fondo da una parte o dall’altra: o sceglie di rompere, con tutte le conseguenze del caso, o decide, come ha fatto l’inverno scorso, di trattare, cedendo su qualcuna delle promesse fatte dal governo.
“Non so prevedere il futuro ma non credo che andranno fino in fondo”, ha detto ieri il vicepremier riferendosi alla procedura di infrazione per il debito che la Commissione europea ha avviato la scorsa settimana. Che non sappia prevedere il futuro è emerso in molte occasioni in questi 12 mesi di governo, e, diciamolo, non è una buona cosa: un leader di governo dovrebbe saperlo fare, perché deve operare delle scelte, indicare delle politiche, che avranno effetti sul futuro, quello è il suo mestiere. Ma tant’è.
Nei riguardi dell’Unione europea, “dell’Europa” come, generalizzando molto, si usa dire in Italia per riferirsi a tutto quello che accade nell’ambito dell’UE, Di Maio non si rassegna al fatto che la Commissione europea è già andata fino in fondo: ha raccomandato agli Stati di avviare una procedura per debito. Una cosa che non era mai stata fatta prima, un atto eccezionale per fronteggiare un’emergenza, che è stato ponderato per mesi e mesi, e che ora è stata giudicato inevitabile. La “raccomandazione” è la scelta che doveva compiere Bruxelles, e l’ha compiuta, fino in fondo. Ora sta all’Italia.
Tecnicamente il nostro governo è stato avvertito, sa quali sono le contestazioni, sa quali sono i rimedi. La procedura ora prevede che siano i governi a decidere se andare avanti contro Roma, non più la Commissione. E qui Giuseppe Conte e Giovanni Tria stanno cercando di prendere loro la palla in mano. Hanno una credibilità a Bruxelles, più Tria che Conte, al quale si riconosce un atteggiamento non troppo aggressivo, ma che non ha il peso tecnico del ministro dell’Economia nei tavoli di Bruxelles, dove si riconosce a Tria di avere grandi doti di pazienza, nel cercare di non far spezzare un filo sottile di dialogo. Se alla fine della settimana il ministro presenterà ai colleghi riuniti in Lussemburgo qualcosa di credibile sul progetto di contenimento del debito, è possibile che poi il Consiglio dei ministri economici di luglio, che a quel momento vorrà vedere qualche dettaglio in più, conceda ancora del tempo all’Italia prima di procedere con le tappe della procedura. Altrimenti c’è poco da fare, la stragrande maggioranza dei governi è d’accordo con la Commissione, sono preoccupati di un crollo dell’Italia, sono stanchi di aspettare e allarmati dai toni dei vice premier, e la procedura andrà avanti. Così hanno stabilito anche i “tecnici”, cioè dirigenti generali dei ministeri finanziari dei 28, a quanto si apprende all’unanimità, con la sola opposizione dell’Italia.
Sarà, teniamolo a mente, un percorso lungo, perché in sostanza si tratta per l’Italia di adottare le misure di riforme e tagli che Bruxelles consiglia e poi di dare il tempo a questi strumenti di funzionare. Questo in caso di buona fede dell’Italia, altrimenti, se Roma non farà nulla, scatterà prima un “blocco dei beni” pari allo 0,2 per cento del PIL (circa 3,5 miliardi), che poi potrebbe diventare una multa. E poi in caso di perseveranza dell’inazione potrebbero anche essere bloccati i fondi di coesione europei.
E se si arriverà a quel punto Di Maio rischierà di perdere anche il suo bacino elettorale nel Sud, che sembra l’unico che gli è rimasto. Anche perché, come spiegammo su queste pagine alcuni giorni fa, un eventuale procedere dell’autonomia differenziata sarebbe un altro fardello che si aggiungerebbe al Mezzogiorno, proprio per la questione dei fondi europei: se si andrà avanti su quella strada le Regioni del Nord potranno programmare l’utilizzo di quei soldi, cosa che nel Sud non sarebbe possibile, restando a Roma come è ora per tutti, con i noti effetti deleteri dovuti alla scarsa conoscenza delle esigenze locali. Quindi o qualcosa cambia rapidamente nella capacità di Di Maio di prevedere il futuro (che vuol dire, fuor di ironia, saperlo programmare) oppure glielo possiamo chiarire noi: così facendo, da ogni mossa che fa esce un futuro nero per il Sud.
(Pubblicato in origine su L’Altra voce dell’Italia)