Quello che sta accadendo a Trieste attorno alla questione della restituzione del Kulturni Dom alla comunità slovena è uno degli squallidi prodotti del nazionalismo di ritorno di stampo leghista, travestito da patriottismo, che peggio di un virus sta infettando le menti di molti italiani. La vicenda è nota. Nel 1920 una banda di fascisti attacca e incendia il centro culturale sloveno della città. Nel 2020 l’Italia rimedia infine al danno e restituisce lo stabile alla comunità slovena cittadina. E questo ora scatena le manifestazioni di risentimento di associazioni che si pretendono patriottiche ma che invece hanno ben poco a cuore la nostra patria, che è fatta di tante culture e di diverse lingue e che proprio grazie a questa varietà ha sempre avuto nei secoli una vitalità culturale unica al mondo.
Trieste è una città italiana ed ha sempre fatto parte del nostro mondo culturale, anche quando apparteneva all’impero austroungarico. Contribuendovi in un modo unico, con scrittori ed artisti di grande calibro e non c’è bisogno di elencare qui Italo Svevo, Umberto Saba, Scipio Slataper, Stelio Mattioni, Quarantotti-Gambini, Fulvio Tomizza e oggi Claudio Magris. Ma la sua eccezionalità le viene proprio dal suo carattere eccentrico, dalla commistione che in lei si è sempre consumata fra diverse lingue e diverse culture, dalla sua apertura a un mondo diverso. Dovrebbe essere inutile dire che Svevo è stato educato in tedesco e che tramite la sua opera la psicanalisi è arrivata in Italia. Dovrebbe essere inutile ricordare che una buona parte di questa eccezionale cultura è stata scritta in sloveno, l’altra lingua della città, da autori come Boris Pahor, a lungo sconosciuto in Italia, e Alojz Rebula e Srečko Kosovel, per citarne solo alcuni.
L’apertura di un centro culturale dovrebbe essere sempre una buona notizia per una città, ancora di più se di un paese vicino, un altro paese dell’Unione europea con cui condividiamo una frontiera, dove la nostra lingua è parlata molto di più che lo sloveno in Italia, dove la nostra cultura è conosciuta e apprezzata. Un centro che arricchisca una città di altra presenza culturale è di solito il benvenuto, è una ricchezza in più di cui la città si può fregiare, è un segno di vitalità e di apertura, due elementi essenziali di una società che cresce, che si sviluppa, che è prospera. Un centro culturale porta attività, movimento, turismo, attira altra cultura incoraggia il dialogo fra artisti e cittadini, diffonde la conoscenza delle lingue e parlarne due è sempre meglio che una, ancora di più quando si vive a cavallo di una frontiera.
Ma a Trieste no, tutto questo non è percepito. E beceri tromboni dalla divisa sempre dello stesso colore oggi scendono in piazza a protestare davanti al Kulturni Dom, proprio come fecero quelli che lo incendiarono cento anni fa. C’è solo da sperare che Trieste sappia difendersi da questa sua anima nera che non le appartiene ma che sa nascondersi nelle pieghe del risentimento, abile ad attizzare divisioni che vanno contro l’interesse della città. Trieste è stata grande quando era aperta, quando era di tutti perché non era di nessuno e serbi, greci, croati, sloveni, ungheresi, ciprioti, austriaci e boemi la abitavano senza che mai venisse meno la sua italianità.