Bruxelles – È l’alba di uno dei momenti-chiave per la storia dell’Unione Europea. “Una rotta così forte e di questa potenza non si registrava dai tempi di Maastricht”, azzarda Luca Jahier, presidente del Comitato economico e sociale (CESE) fino allo scorso 28 ottobre e ora aspirante candidato sindaco di Torino nella corsa alle primarie del centrosinistra. Il Recovery Fund, sommato ai fondi strutturali e al programma InvestEU, “mobiliterà una quantità di risorse senza precedenti”, spiega a Eunews, “ma se mancheremo nella realizzazione di questa straordinaria opportunità per il nostro Paese, le conseguenze ci travolgeranno”. Ecco perché è arrivato il momento della responsabilità, in Europa come in Italia.
Jahier, ma l’Italia è pronta a ricevere tutti questi fondi?
Il sentimento generale è sicuramente di grande rispetto e riconoscenza per un’Unione che ha dimostrato di esserci sia nell’emergenza, sia oggi a dare una linea chiara per il futuro. Ora sta nelle mani del governo e delle autorità locali, dei soggetti d’impresa pubblici e privati, determinare le direttrici di investimento. Nessuna forza politica rilevante evoca più l’uscita dall’UE, è un tema sparito dalla narrazione pubblica: anzi, c’è la rincorsa a chiedere di più a Bruxelles. Ma bisognerà poi saper davvero mettere a frutto queste risorse.
Altrimenti?
Altrimenti questa enorme aspettativa rischia di diventare un effetto boomerang, che colpirà più duramente le istituzioni europee. Per evitare che questo avvenga, deve entrare il campo l’imperativo categorico dell’implementazione: regolamenti flessibili, criteri di monitoraggio adatti, un vero e proprio salto di mentalità.
Cosa la convince di questa strategia europea?
Prima di tutto che le risorse mobilitate da qui ai prossimi cinque anni sono senza precedenti, più di 300 miliardi di euro complessivamente. Poi è chiaro che in particolare il Recovery sarà indirizzato a rilanciare l’economia seguendo le linee guida del Green Deal, della sovranità digitale e del rafforzamento di un welfare rinnovato. Costruendo un’agenda convergente con gli altri Paesi europei, potremo rilanciare l’economia e far respirare il Paese grazie a nuove riforme anche per la macchina amministrativa.
Chi ne beneficerà maggiormente?
Pur considerando le aree rurali e periferiche, le città sono il luogo dove si concentra maggiormente la vita e il lavoro in Italia come negli altri Paesi europei. Quindi direi che il Recovery avrà inevitabilmente un grosso impatto proprio sulle città. Ma le condizioni essenziali perché l’effetto sia positivo riguardano sia il governo, che dovrà adeguarsi a parametri europei e non solo tappare i soliti buchi, sia i territori, che dovranno essere capaci di creare alleanze per capitalizzare la strategia dell’Unione.
Scendiamo nel concreto. Da aspirante candidato alla poltrona di sindaco di Torino, come indirizzerebbe le risorse nella sua città?
I capitoli che intercettano le opportunità della rotta europea sono numerosi. Primo tra tutti, il settore dell’automotive: la riconversione energetica anche nel settore dei trasporti può rinnovare la vocazione di questa città e fornire una nuova missione industriale grazie alle frontiere dell’idrogeno e dell’elettrico. Poi Torino può diventare uno dei poli europei della strategia di sovranità digitale, considerata l’indicazione del governo di porre qui la sede dell’Istituto italiano per l’intelligenza artificiale. Terzo, Torino è la capitale storica dell’innovazione sociale, dal Cottolengo all’istruzione professionale dei Salesiani di Don Bosco: ora anche la Commisisone ha riconosciuto l’importanza del sistema delle reti di accompagnamento perché nessuno sia lasciato indietro. E infine la cultura, con cui questa città ha avuto una crescita esponenziale negli ultimi anni. Ma se non adeguiamo la capacità degli attori pubblici e privati di attrezzarsi per spendere e fare progettazione, potrebbe esserci qualche problema.
Stiamo però facendo i conti senza l’oste. È preoccupato per i veti sul bilancio pluriennale UE e Recovery Fund che rischiano di farne saltare l’approvazione?
Lo scandalo del veto di Ungheria e Polonia è che anche loro si trovano in una situazione di grande urgenza, è un mossa suicida. In più, a questo punto non si può escludere che anche i Paesi frugali (Paesi Bassi, Austria, Danimarca, Svezia e Finlandia, ndr) non pongano ulteriori questioni sul tavolo. Il primo effetto negativo è arrivato con il mancato accordo la settimana scorsa: anche se venisse trovato entro la fine dell’anno, lo slittamento nell’erogazione dei fondi si è già generato. Mancano ancora le ratifiche dei Parlamenti nazionali, un particolare non secondario. A oggi, si è creato un intoppo nella macchina che avrebbe dato i primi finanziamenti prima di giugno: a questo punto arriverebbero dopo estate o anche più tardi, è difficile prevedere che effetto si scatenerà.
A cosa si riferisce?
La mia preoccupazione è che si eroda la spinta propulsiva di fiducia verso le istituzioni europee generata nel 2020. Questa macchina, in poche settimane dallo scoppio della pandemia di Covid-19, si è mossa più velocemente della risposta data alla crisi del 2008. Ma se la potenza e l’ampiezza della reazione viene rallentata, si crea un doppio rischio: creare disillusione tra i cittadini e lasciare campo a forze disposte a tutto purché niente cambi. La locomotiva europea non può tornare a essere un treno accelerato di montagna, o il rischio che i vagoni vengano depredati sarà altissimo.