Bruxelles – Per quanto il mondo abbia realizzato finora nel frenare la diffusione del Coronavirus, gran parte dell’impatto innescato dalla pandemia continuerà ad avere conseguenze, compreso l’indebolimento dei livelli di sicurezza alimentare (cioè della certezza di produrre cibo a sufficienza per alimentare tutti i cittadini) in molti Paesi, che impone una riflessione sull’importanza della food security anche per la sicurezza nazionale. Ma non è solo il COVID a preoccupare sulla sicurezza alimentare, un esempio: di due giorni fa l’attacco ai sistemi informatici del più grande colosso americano produttore di carne, la JBS, che spinge il governo USA a intervenire per assicurare la piena operatività degli stabilimenti ed evitare l’interruzione delle forniture di carni. Un episodio che “dovrebbe fare riflettere” sul fatto che un “adeguato (auto)approvvigionamento agroalimentare, di carne e di altri beni di prima necessità, è, e sarà sempre più, una priorità da tutelare per ciascun Paese anche in termini di sicurezza nazionale”, sostiene Filiera Italia.
Gli USA non sono i soli, anche Cina e Russia vanno in questa direzione, mentre l’Unione Europea a che punto si trova? “Ci sono i protagonisti globali che si rendono conto della strategicità centrale della food security e che capiscono che avere garanzia di (auto)approvvigionamento soprattutto dopo la pandemia vuol dire parlare di sicurezza nazionale ed è un elemento su cui si giocheranno le future competizioni globali”, spiega a Eunews Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia, lanciando l’allarme sull’importanza di rendere la sicurezza alimentare del Continente più centrale tra le politiche europee. L’Europa rischia di andare nel senso contrario. “Mentre il mondo che conta va in questa direzione” l’Unione Europea “va nel senso opposto, blocca il trilogo sulla PAC e nella strategia dell’agroalimentare “Farm to Fork si dirige verso un’ulteriore riduzione della produzione, dove la dipendenza da Paesi terzi” in termini di esportazione “è vista quasi come un valore aggiunto”.
L’episodio che ha coinvolto la JBS è “indicativo di dove sta andando il mondo in tema di food security”. Ricorda che anche Mosca durante la “pandemia ha introdotto dazi alle esportazioni di grano di un livello mai raggiunto prima” mentre Pechino è passata a “norme penali rigidissime in tema di spreco alimentare”. E l’Europa? Per Scordamaglia c’è distanza tra quello che il resto del mondo fa e l’UE “che pensa di potersi permettere di rinunciare alla propria produzione agricola interna e di dipendere invece di più dalle importazioni. Tendenza opposta rispetto a quello che il resto del mondo anche a causa della pandemia fa”.
E manca anche l’attenzione alla tutela della produzione agricola vera nei negoziati in corso sulla nuova Politica agricola comune (PAC), che entrerà in vigore dal primo gennaio 2023, al netto di un accordo tra Parlamento UE e presidenza del Consiglio. Non solo è tenuto poco in considerazione, ma viene considerato “un non problema nei negoziati della PAC”. Ma anche la strategia agroalimentare dell’Unione Europea Farm to Fork è attualmente priva di una studio di valutazione che ne faccia comprendere il reale impatto negativo su produzione e consumi in UE. La Commissione Europea si rifiuta di farla, decisa a fare studi dell’impatto delle singole azioni nel quadro della FtF, e non sull’intera strategia che, tra le altre cose, impone riduzioni mirate nell’uso di terreni, antimicrobici, fertilizzanti e pesticidi.
Se non ci pensa l’UE a fare una valutazione d’impatto, ci hanno pensato gli Stati Uniti, ricorda Scordamaglia, in riferimento alla valutazione dell’USDA pubblicata a novembre 2020 in cui il dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti ha eseguito una serie di simulazioni politiche sulle implicazioni economiche di molti degli obiettivi proposti dalla strategia europea, osservando una riduzione della produzione agricola globale, prezzi più alti, meno commercio e, soprattutto, più insicurezza alimentare globale. Anche l’USDA – aggiunge Scordamaglia – usa toni preoccupati “perché rispetto a un vantaggio evidente che un calo della produzione europea porterebbe ai produttori americani, lo studio dice che se ci fosse implementazione della strategia – essendo l’UE uno dei principali produttori agricoli e tra i protagonisti del commercio agricolo internazionale – gli scenari che si prospettano vedono un calo della produzione agricola e alimentare europea vanno al di la del beneficio che potrebbero avere i produttori agricoli americani”. In sostanza, sintetizza, “prevedono un aumento dell’insicurezza alimentare livello globale, un aumento dei prezzi e un impoverimento dei consumatori. Ma sono gli americani a preoccuparsi di ciò che potrebbe derivare da un calo della produzione in Unione Europea”, non l’Europa.
La Farm to Fork si lega all’obiettivo della Commissione europea di rendere più sostenibile e meno impattante sull’ambiente la filiera agroalimentare europea. Dall’agricoltura, da sola, derivano almeno il 10 per cento delle emissioni di gas a effetto serra, ma è anche uno dei settori in cui si può fare di più per lavorare per rimuoverle. “Nessuno evidenzia adeguatamente che oltre il 65 per cento delle emissioni vengono da trasporto ed energia non da produzione agricola e che la percentuale di emissioni ad esempio da zootecnia è in Italia la più bassa al mondo. Sostenibilità non può voler dire smettere di produrre, che avrebbe effetti drammatici anche tra i Paesi poveri perché a livello globale verrebbe meno una produzione agricola importante nel bilancio complessivo”, aggiunge Scordamaglia, spiegando che sostenibilità “si fa rendendo sostenibile il modello di produzione e non facendo riducendo la produzione”. Anche in Italia – ricorda – abbiamo “modelli di tecnologie satellitare, di precision farming che aumentano la produttività ma riducono anche l’impatto ambientale. Questo è il modello che il resto del mondo dovrebbe seguire”.
Il consigliere delegato di Filiera Italia conclude che la food security, l'(auto)approvvigionamento alimentare è “un valore da tutelare”. A parità di consumo richiesto se l’Europa è costretta a importare ciò che non produrrà più, ci saranno due effetti negativi: “da un lato distruggi le filiere agricole europee che sono quelle con gli standard più elevati di produzione (in termini ambientali o di benessere animale), e poi sarà costretta ad accordi commerciali per fare entrare milioni di tonnellate di prodotti a dazio zero che sottrai ad altre parti del mondo, dando ai cittadini meno ricchi un prodotto con standard inferiori”. Con il solo risultato – denuncia Scordamaglia – di aumentare l’instabilità mondiale e la disuguaglianza. L’appello all’Europa è quello di non smantellare la produzione, invece “premiare di più chi produce a più basso impatto ambientale”, sostenendo e finanziando l’innovazione e la crescita.