E’ calato il sipario sulla COP26 di Glasgow: 197 Paesi, 14 giorni di negoziati, le attese di tutto il mondo per una svolta sulla lotta al climate change. La delusione da parte dei tanti partecipanti è tangibile e si basa su un dato di fatto: l’accordo raggiunto non è sufficiente a garantire l’obiettivo di contenimento del surriscaldamento globale.
La decarbonizzazione può attendere?
Al momento di dare l’annuncio dell’accordo raggiunto, il presidente Alok Sharma non è riuscito a trattenere le lacrime. Lacrime amare, dettate da una variazione introdotta al testo proprio all’ultimo minuto. Una variazione piccola che, però, fa tutta la differenza del mondo: sull’uso del carbone, la parola “phase out” (eliminazione) è stata sostituita dalla parola “phase down” (riduzione progressiva). Una sola parola per svuotare di significato un intero paragrafo.
E’ vero che il carbone è stato indicato come una delle principali fonti del surriscaldamento globale, ma l’India, che ha il 70 per centro della produzione di energia nazionale basato sul carbone, non ha accettato la possibilità di eliminarlo. L’India è il terzo paese al mondo nella graduatoria delle emissioni, la Cina, che insieme a Sudafrica, Bolivia e Iran hanno appoggiato la posizione indiana, è il primo paese. Il loro punto di vista è chiaro: non è equo lasciare ai paesi che hanno più contribuito alla concentrazione di emissioni dei gas serra più diritti ad inquinare perché partono da un livello di emissioni pro-capite più elevato. E ciò non favorisce neanche la formazione dei giusti incentivi.
In questo modo, però, l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi appare più lontano. Per questo motivo lo stesso Alok Sharma, che aveva presentato la Cop26 a luglio come “la nostra ultima speranza per salvare il mondo”, ha definito ora l’accordo raggiunto a Glasgow come una “vittoria fragile”.
Il fallimento del “blablabla”
Più netta la bocciatura da parte di Greta Thumberg, che parla di un vero e proprio “fallimento”, denunciando l’inutilità della politica del “blablabla”. Infatti, oltre al mancato accordo sulla decarbonizzazione, non arriveranno neanche i 100 miliardi di dollari all’anno promessi a Copenaghen del 2009 per i paesi più vulnerabili. La posizione della ragazza svedese denuncia una mancata presa di responsabilità da parte dei governi attuali a danno delle future generazioni.
In questo modo, dopo Glasgow, anche nello scenario più favorevole, ossia se gli Stati faranno le revisioni dei loro Ndc (Nationally Determined Contributions) in base a quanto dichiarato, nel 2030 le emissioni di gas serra sarebbero comunque ancora il doppio di quanto gli scienziati ritengono indispensabile conseguire.
Le speranze per il futuro
Ci sono però anche delle notizie positive. La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha definito il Patto climatico di Glasgow come “un passo un avanti nella direzione giusta”. Nell’immediato, gli accordi sulla riduzione delle emissioni di metano e contro la deforestazione possono imprimere l’accelerazione richiesta.
Inoltre la revisione del Paris Rulebook, ossia dell’insieme di regole condivise necessarie per rendere attuabile il trattato di Parigi, apre alla possibilità di una maggiore e migliore cooperazione internazionale su tanti temi decisivi.
Infine, l’obbligo per ogni Stato di rivedere i Piani nazionali di riduzione delle emissioni non più ogni 5 anni, ma ogni 12 mesi, costringe i singoli Stati a tornare al tavolo nel 2022 con obiettivi più sfidanti verso la neutralità carbonica.
Le attese si spostano quindi verso la Cop27 prevista in Egitto nel 2022, dove tutti i Paesi saranno chiamati a puntare più in alto, per mantenere viva la speranza di sopravvivenza del nostro pianeta.
L’approccio “One Health”
Resta però il grande interrogativo che investe tutti noi di fronte a un problema così urgente: cosa significa realmente il mio personale contributo rispetto a questo scenario internazionale? E’ ormai chiaro che i tempi della politica e del compromesso non sono più compatibili con i tempi biologici del nostro pianeta.
Dobbiamo ripartire dalla consapevolezza che oggi tutto è interconnesso, la nostra salute non è separata dalla salute dell’ambiente in cui viviamo. Esiste una sola salute, “One Health”, concetto ampio e comprensivo che riguarda tematiche legate alla salute umana, animale e ambientale.
QU Dongyu, Direttore Generale della FAO, nella recente riunione dei Ministri della Salute del G20 tenutasi a Roma, ha ribadito come il mondo abbia, oggi, “l’occasione di rafforzare i metodi collettivi e collaborativi per prevenire pandemie future attraverso un approccio “One Health”, universale e inclusivo”. Le azioni dei singoli Paesi devono riconoscere “come la salute dell’uomo sia legata alla salute degli animali e dell’ambiente”.
Abbiamo bisogno di un nuovo approccio ecologico, che trasformi il nostro modo di abitare il mondo, i nostri stili di vita, la nostra relazione con le risorse della terra, e in generale il modo di guardare all’uomo e di vivere la vita. Serve un’ecologia umana integrale, che coinvolga non solo le questioni ambientali, ma l’uomo nella sua totalità. Non possiamo più avere un atteggiamento predatorio nei confronti delle risorse.
Sulle questioni climatiche siamo in ritardo, è vero. La buona notizia è che possiamo recuperare, e anche velocemente. Dipenderà però dai singoli comportamenti messi in atto dai singoli uomini e dai singoli Stati. E’ per questo motivo che il tempo che ci separa dalla Cop27 per il superamento delle divergenze negoziali tra le varie Nazioni deve essere speso meglio di quanto avvenuto dopo l’accordo di Parigi.