I numeri parlano chiaro. Dal 1992 ad oggi, quindi negli ultimi 30 anni, l’Italia ha cambiato Presidente del Consiglio per 17 volte, dando vita a ben 19 esecutivi. Quindi si è avuto un cambio di premier ogni anno e 9 mesi, ben al di sotto dei 5 anni di legislatura previsti dalla Costituzione. La media in cui un Presidente del Consiglio italiano è stato effettivamente al governo è di 576 giorni.
I dati
Pur tenendo in considerazione le diverse forme di governo e di funzionamento politico, il confronto tra i 27 Paesi membri dell’Unione Europea non lascia dubbi nel sottolineare l’instabilità dell’Italia, come si evince dai dati raccolti.
Se l’Italia è prima nel numero di premier cambiati, non è comunque da meno sul numero di esecutivi creati negli ultimi 30 anni (19), collocandosi subito dietro la Romania (22), la Lettonia e la Francia (21). Ma anche su questo punto bisogna considerare che i paesi hanno storie diverse e forme di governo differenti, come per esempio la Francia che ha avuto 5 Presidenti negli ultimi 30 anni.
La normalità è l’instabilità
La prima considerazione che può emergere dai dati è che l’instabilità sia in realtà la nuova normalità dell’Italia. Un’instabilità dovuta a tanti fattori, a partire dal frazionamento dei partiti. Questo frazionamento da un lato garantisce una rappresentatività capillare dei cittadini e dall’altro pone il vincolo dell’imprescindibilità di un’intesa per chiunque risulti vincitore delle prossime elezioni, che può sicuramente essere considerato un elemento democratico. Questa necessità di un’intesa ha però comportato più volte nel tempo che sia stato necessario far insediare un governo tecnico, proprio alla ricerca dell’intesa più larga possibile.
Altro elemento che determina l’instabilità è sicuramente quello della legge elettorale, che ha dei meccanismi non efficaci per concretizzare una governabilità duratura e che andrebbe rivista in un’ottica proprio di stabilità. Ma anche la revisione di questa legge ha avuto diverse difficoltà ad essere anche solo impostata dal Parlamento.
Infine può esserci anche una sorte di abitudine entrata ormai nel tessuto sociale italiano. Da quando ha preso avvio la Seconda Repubblica, dove i cittadini avevano fatto sentire forte la loro voglia di cambiamento, ci si è assuefatti nel tempo a questa instabilità. Le ultime elezioni avevano un po’ intercettato un nuovo risveglio da parte degli elettori, che avevano catalizzato il loro dissenso in un voto di discontinuità con il passato. Le gravi emergenze che hanno colpito il mondo intero e che ancora sono presenti nel nostro percorso storico, come la pandemia e la guerra in Ucraina, hanno naturalmente risvegliato una ricerca di stabilità politica da parte degli elettori da cui conseguirebbe una maggiore sicurezza, ma questo ancora non si è tradotto in un voto chiaro e definitivo a favore dell’una o dell’altra parte in causa.
Le conseguenze politiche, ambientali ed economiche
L’instabilità, se pure può essere accettata come il “new normal” italiano, ha però delle ricadute politiche, ambientali ed economiche importanti.
Innanzitutto il concetto di instabilità si trova agli antipodi rispetto a qualsiasi progettualità a medio o lungo termine. L’Italia non è arrivata neanche a metà del cammino di riforme legate al PNRR, e questo improvviso stop non aiuta certo la loro realizzazione. La scelta dei governi, in questi ultimi 30 anni, è stata quella di creare progetti a corto raggio, di immediata realizzazione, perché appunto l’instabilità futura è un elemento di cui non si può non tenere conto in qualunque progettazione.
Altro settore in cui l’instabilità ha pesanti ricadute è quello dell’ambiente e della lotta ai cambiamenti climatici. Come ormai abbiamo imparato, i tempi di risposta politica ai cambiamenti climatici sono particolarmente lunghi e dilatati nel tempo. Qualsiasi ipotesi di soluzione o azione concreta ha difficoltà a trovare una realizzazione in tempi stretti e deve dispiegare la sua efficacia nel corso di anni. In questo senso, il cambio di premier così frequente non permette per esempio l’attuazione del ciclo di Deming (PDCA) alle tematiche ambientali, necessario a monitorare l’efficacia delle azioni intraprese e ad applicare i relativi correttivi, generando di fatto una rincorsa infinita ai medesimi obiettivi.
Infine, l’instabilità politica porta necessariamente gli investitori a non rischiare i propri capitali su un Paese così ondivago. I capitali che vengono bruciati a Piazza Affari ogni volta che c’è una crisi di governo portano ad orientarsi verso soluzioni differenti. Le regole del mercato implicano una dimensione di aut aut che non lascia spazio ai fraintendimenti: se non c’è sviluppo è inutile investire. Un Paese così ingessato che non riesce a riformare alcuni ambiti effenziali per il suo funzionamento non può essere attrattivo per gli investitori esteri.
Il nuovo appuntamento con le urne
La strada ormai è decisa: il ritorno alle urne entro 70 giorni. Ci si appella così giustamente al senso di responsabilità dei cittadini, che con il loro voto sono chiamati a dare maggiore stabilità al Paese.
Resta però il dubbio, per i diversi fattori esposti, che il sistema stesso non consenta di fatto quella svolta necessaria a garantire quella stabilità così fortemente presente negli altri Paesi dell’Unione. Gli scenari che si aprono, a questo punto, potrebbero ragionevolmente far pensare a un nuovo pareggio, dove nessuna forza politica conquisti realmente la supremazia sulle altre. E così lo spettro dell’ennesima ingovernabilità attende in silenzio dietro le nostre cabine elettorali.