Bruxelles – Le tasse sul carbonio “funzionano”. Su questo la Banca centrale europea non ha dubbi, e lo scrive a chiare lettere nel documento di lavoro dedicato all’argomento. Funzionano “non solo influenzando direttamente il costo di produzione per le imprese ad alta intensità di carbonio, ma anche influenzando la disponibilità delle banche a concedere credito a progetti ad alta intensità di carbonio”. Sono dunque un freno al foraggiamento di quell’economia che a livello Ue si considera ormai sempre più insostenibile e per questo da superare. Ma attenzione, perché gli sforzi a dodici stelle, da soli, rischiano di non bastare. Per avere una riduzione “significativa” del finanziamento delle società attive nella produzione e nella lavorazione dei combustibili fossili, “una tassa sul carbonio deve essere globale”.
L’Unione europea ha saputo dotarsi del Meccanismo di aggiustamento del carbonio alle frontiere (CBAM), uno dei fascicoli principali del ‘Fit for 55’, la strategia per ridurre entro il 2030 le emissioni di gas a effetto del 55 per cento rispetto ai livelli del 1990. Il Cbam serve proprio a questo, a imporre una tassa sul carbonio. Il meccanismo obbligherà gli importatori ad acquistare certificati di CO₂ e porterà a eliminare definitivamente tutte le quote gratuite che ancora vengono rilasciate per non svantaggiare troppo le imprese europee dalla concorrenza internazionale. Un cambiamento epocale ma che non deve restare isolato, avvertono tecnici ed esperti della Bce.
In nome della competitività e della corsa alla crescita economica alcuni Paesi extracomunitari potrebbero essere tentati di non abbracciare il cambiamento. “Le autorità nazionali potrebbero essere riluttanti a imporre tasse sul carbonio unilateralmente, per paura che le attività economiche interessate si spostino semplicemente oltre i confini”. Ecco allora che la vera sfida, in termini di misure per il clima, sembra essere quella di “un coordinamento globale imperfetto”.
Il suggerimento implicito che arriva da Francoforte è quello di negoziare una ‘carbon tax’ in sede internazionale. A quale livello è facile immaginarlo. L’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione economica, comprende 38 Stati, e nessuno dei cosiddetti ‘Brics’ (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). Servirebbe un accordo a livello di Nazioni Unite, per avere un cambio di passo davvero credibile. “Pochi Paesi al mondo tassano le attività ad alta intensità di carbonio e ancora meno ai livelli raccomandati dagli economisti”, rileva ancora il documento di lavoro della Bce, e l’unico modo per avere degli obiettivi vincolanti è la via Onu.
“Per essere efficaci da una prospettiva globale, le norme ambientali in generale, e la fissazione del prezzo del carbonio in particolare, devono essere sufficientemente rigorose in tutto il mondo“. Si insiste su questo aspetto, perché è qui che si gioca la sostenibilità del pianeta e anche una parte della scommessa dell’Ue. Una tassa sul carbonio “deve essere globale” anche e soprattutto per avere “una riduzione significativa del finanziamento delle società” attive nell’estrazione, lavorazione e produzione di fonti fossili. Il rischio è che l’Ue stringe le maglie mentre altri preferiscono altre vie, e i tagli alle emissioni in Europa sono controbilanciati dall’immissione in atmosfera in altre zone del mondo.
Il compito dell’Unione europea è dunque quello di avviare un percorso di convincimento a tutto campo sullo scacchiere internazionale. Serve al pianeta, e serve per confermare le vocazioni verdi sancite con il Green Deal. “Esiste un consenso pressoché universale tra gli economisti sul fatto che le carbon tax siano lo strumento più conveniente per ridurre le emissioni di carbonio e accelerare la transizione verde”, rilevano ancora da Francoforte. Evidenza scientifica e convergenza economica sullo stesso tema possono rappresentare una buona leva.