Bruxelles – In primavera l’Unione Europea era certa di essere uscita dalla modalità ‘gestione della crisi’ tra Kosovo e Serbia, a maggio/giugno i rapporti sono tornati a incrinarsi in modo strutturale e all’inizio dell’autunno sembra che si dovrà ricominciare, se non daccapo, quantomeno da basi nuove per rispondere a un’emergenza istituzionale scaturita da un attacco terroristico e da un ammassamento di truppe al confine. “Non c’è posto per armi e forze di sicurezza ammassate nel continente europeo, le forze militari serbe devono ritirarsi“, è il richiamo dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, dopo l’allarme lanciato dagli Stati Uniti sulla situazione lungo la linea di demarcazione che separa la parte settentrionale e orientale del Kosovo dalla Serbia meridionale.
“Stiamo monitorando un grande dispiegamento militare serbo lungo il confine con il Kosovo, che include un allestimento senza precedenti di artiglieria serba avanzata, carri armati e unità di fanteria meccanizzata“, aveva fatto sapere la Casa Bianca sabato sera (30 settembre). Una dichiarazione troppo esplicita per lasciare a Bruxelles lo spazio di ‘no comment’ sullo stesso allarme già lanciato dal governo di Pristina poche ore prima. “L’ammassamento di forze militari serbe presso la linea di confine amministrativa è molto preoccupante e deve cessare immediatamente”, ha così commentato alla stampa l’alto rappresentante Borrell durante un evento ieri (primo ottobre) in Ucraina, spiegando che “siamo in stretto e regolare contatto con gli Stati Uniti” per spingere una “attenuazione e stabilizzazione della situazione della sicurezza nella regione”. Parallelamente il Regno Unito ha annunciato che invierà un contingente per rafforzare la Kosovo Force (Kfor), la forza di pace internazionale a guida Nato avviata il 10 giugno 1999 dopo il mandato dalla Risoluzione 1.244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Sul campo sono dispiegati 4.511 soldati internazionali guidati dal generale italiano Michele Ristuccia, dopo un primo aumento di 700 membri deciso a fine maggio per rispondere alle violenze scoppiate nel nord del Paese.
Tutto è scaturito dall’attacco terroristico del 24 settembre nei pressi del monastero serbo-ortodosso di Banjska, quando un gruppo di 30 attentatori ha attaccato una squadra della polizia del Kosovo, causando la morte di uno dei membri. Gli sviluppi dell’ultima settimana hanno però tratteggiato un quadro molto più grave del previsto, con diramazioni evidenti nella vicina Serbia. Come evidenziato da un video girato da un drone nel giorno dell’attentato, tra gli attentatori all’esterno del monastero c’era anche Milan Radoičić, vice-capo di Lista Srpska, il principale partito che rappresenta la minoranza serba in Kosovo e controllato da vicino dal presidente serbo, Aleksandar Vučić. Mentre la polizia kosovara ha scoperto un arsenale di armi ed equipaggiamento enormi a disposizione dei terroristi, venerdì (29 settembre) lo stesso Radoičić ha confermato di aver guidato l’attacco armato, mettendo in difficoltà il leader serbo.
“Ci aspettiamo che la Serbia cooperi in modo pieno e incondizionato“, ha ribadito oggi il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano, facendo riferimento non solo al fatto che “i responsabili non devono rimanere impuniti” per l’azione terroristica del 24 settembre, ma anche per l’accumulo di armi sul territorio del nord del Kosovo e di truppe serbe lungo il confine amministrativo (che da alcuni video sembrano effettivamente in fase di ritiro). Secondo quanto denunciato dal primo ministro kosovaro, Albin Kurti, “sulla base della documentazione confiscata” l’attacco terroristico faceva parte di un piano più ampio per annettere il nord del Kosovo “attraverso un attacco coordinato su 37 posizioni distinte”, a cui sarebbe seguita la creazione di un corridoio verso la Serbia “per consentire il rifornimento di armi e truppe”.
Come fanno notare gli analisti sul campo, sembra più verosimile pensare che per la Serbia fosse più conveniente minacciare un attacco per imporre indirettamente alla Kfor di prendere il controllo della gestione dell’ordine pubblico nel nord del Kosovo, di fatto esautorando la polizia kosovara e impedendo a Pristina di esercitare la piena sovranità sul territorio rivendicato dopo la dichiarazione di indipendenza unilaterale del 2008. È vero che Vučić nell’ultima settimana ha subito più di un’umiliazione sul piano politico – e i politici umiliati possono prendere decisioni imprevedibili per provare a ristabilire la propria autorità – ma uno scontro con la Nato scatenato da un’invasione effettiva del Kosovo potrebbe rappresentare un suicidio politico in vista di possibili elezioni anticipate al 17 dicembre e per la sua credibilità internazionale. Anche se sostenuta dalla Russia, la Serbia non potrebbe sostenere l’isolamento internazionale, né sul piano militare né su quello economico.
Due anni di tensione in Kosovo
Dopo le due riunioni estive del 2021 tra il premier Kurti e il presidente Vučić a Bruxelles, a metà settembre dello stesso anno è scoppiata per la prima volta nel nord del Kosovo la cosiddetta ‘battaglia delle targhe‘. Inizialmente si è trattata di una controversia diplomatica tra Pristina e Belgrado, legata alla decisione del governo Kurti di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro, usate in larga parte proprio dalla minoranza serba nel Paese. La questione è stata momentaneamente risolta grazie alla mediazione Ue, ma l’assenza di una soluzione definitiva ha infiammato la seconda metà del 2022: a fine luglio sono comparsi i primi blocchi stradali e barricate delle frange più estremiste della minoranza serbo-kosovara e due riunioni fallimentari tra Vučić e Kurti a Bruxelles non hanno portato a nessuno sblocco dello stallo.
La situazione si è aggravata quando Lista Sprska ha preso in mano le redini della protesta popolare nel nord del Kosovo. Il 5 novembre sono andate in scena dimissioni di massa di sindaci, consiglieri, parlamentari, giudici, procuratori, personale giudiziario e agenti di polizia dalle rispettive istituzioni nazionali in protesta contro il piano graduale per l’applicazione delle regole sulla sostituzione delle targhe serbe. Tra i dimissionari c’erano anche i sindaci di Kosovska Mitrovica, Zubin Potok, Zvecan e Leposavić e per questo motivo si è reso necessario tornare alle urne nelle quattro città: in programma inizialmente per il 18 dicembre, sono state poi rinviate al 23 aprile. Parallelamente è stata raggiunta una soluzione di compromesso sulle targhe nella notte tra il 23 e il 24 novembre a Bruxelles, anche se prima del vertice Ue-Balcani Occidentali del 6 dicembre a Tirana il presidente serbo Vučić ha minacciato di boicottarlo a causa della nomina di Nenad Rašić all’interno del governo kosovaro (al posto del leader di Lista Srpska, Goran Rakić), come ministro per le Comunità e il ritorno dei profughi all’interno del governo kosovaro. Rašić è il leader del Partito Democratico Progressista, formazione serba ostile a Belgrado e concorrente di Lista Srpska.
Il 2022 si è chiuso con una nuova escalation di tensione ai valichi di frontiera nel nord del Kosovo, dopo la decisione di Pristina di inviare alcune centinaia di forze di polizia per sopperire alla mancanza di agenti dimessisi sempre a novembre. Le barricate delle frange serbo-kosovare più estremiste sono state smantellate solo dopo alcune settimane grazie allo sforzo diplomatico dei partner europei e statunitensi. L’appuntamento alla nuova crisi doveva attendere solo cinque mesi, più precisamente il 26 maggio 2023. A causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica sono scoppiate violentissime proteste con la responsabilità di esponenti di Lista Srpska, trasformatesi il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). La tensione è deflagrata per la decisione del governo Kurti di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti il 23 aprile, in una tornata elettorale controversa: l’affluenza al voto è stata tendente all’irrisorio – attorno al 3 per cento – a causa del boicottaggio proprio di Lista Srpska.
Dopo il dispiegamento nel Paese balcanico di 700 membri aggiuntivi del contingente di riserva Kfor, nuove proteste sono scoppiate a inizio giugno per l’arresto di due manifestanti accusati di essere tra i responsabili delle violenze di fine maggio. Parallelamente è andato in scena il 14 giugno un arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi, per cui i governi di Pristina e Belgrado si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine, in una zona di confine tra il nord del Kosovo e il sud della Serbia scarsamente controllata dalla polizia kosovara e solitamente usata da contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. Dopo settimane di continui appelli alla calma e alla de-escalation non ascoltati, Bruxelles ha ritenuto necessario convocare una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per cercare delle vie percorribili per ritornare fuori dalla “modalità gestione della crisi”. Il 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari da parte della Serbia, ma la questione delle tensioni tra Pristina e Belgrado è finita anche nelle conclusioni del Consiglio Europeo del 29-30 giugno.
A causa del mancato “atteggiamento costruttivo” da parte di Pristina per la de-escalation della tensione, Bruxelles ha imposto a fine giugno misure “temporanee e reversibili” contro il Kosovo, che prevedono anche la sospensione del lavoro degli organi dell’Accordo di stabilizzazione e associazione. Per eliminare queste misure (“non sanzioni”, come ricorda Bruxelles) è stata concordata il 12 luglio una tabella di marcia con quattro tappe, che Pristina sta implementando ancora a fatica e che dovrebbe portare a nuove elezioni locali con il coinvolgimento teorico anche di Lista Srpska. Lo scorso 14 settembre si è svolto l’ultimo round di alto livello del dialogo Pristina-Belgrado a Bruxelles, che ha dimostrato ancora una volta tutte le difficoltà a trovare un punto di compromesso proprio sul nord del Kosovo e sullo statuto della minoranza serba nel Paese: dopo 10 anni dall’Accordo di Bruxelles sull’Associazione delle municipalità a maggioranza serba in Kosovo, è ancora lontana l’implementazione della comunità nel Paese a cui dovrebbe essere garantita autonomia su tutta una serie di materie amministrative.
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