Bruxelles – Passano i giorni ma, mentre rimangono sempre pochi i dettagli pubblici dell’accordo, aumentano le perplessità, i dubbi e le critiche per un protocollo tra Italia e Albania sulla migrazione che è tutto fuorché trasparente. E che, dalle informazioni a oggi disponibili, inizia già a mostrare falle sul piano giuridico e legale. A mostrare da Bruxelles in modo organico le criticità del piano firmato lunedì (6 novembre) dalla prima ministra italiana, Giorgia Meloni, e dall’omologo albanese, Edi Rama, è il Consiglio Europeo per i Rifugiati e gli Esiliati (Ecre), in una valutazione preliminare che sottolinea prima di tutto come i due governi non abbiano ancora fornito informazioni esaustive “sulle finalità dei centri proposti e sulle procedure che vi saranno applicate”, ma nemmeno “sull’ambito di applicazione dell’accordo e sulle categorie di persone che vi rientreranno”.
Perché a tre giorni dall’intesa tra Roma e Tirana è stato reso noto alla stampa solo il testo del protocollo, ma ancora sono oscuri i dettagli contenuti “nell’Allegato 1” sui due centri di Shengjin per le procedure di sbarco e di identificazione e di Gjader che funzionerà come un Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr). Il problema non è solo della stampa e delle Ong, ma anche della Commissione Europea, che solo oggi (9 novembre) ha ricevuto dal governo italiano il protocollo. “Non possiamo ancora scendere nei dettagli”, ha precisato ai giornalisti la portavoce della Commissione Ue responsabile per gli Affari interni e la migrazione, Anitta Hipper, ancora in difficoltà a fornire risposte a proposito di un piano su cui il gabinetto von der Leyen è stato tenuto all’oscuro fino al giorno della firma tra Meloni e Rama.
Tra le criticità evidenziate da Ecre c’è in primis una questione giuridica. Se il protocollo contiene riferimenti a diritti umani (nel preambolo), conformità con il diritto internazionale ed europeo (articolo 2) e gestione dei centri in linea con gli obblighi legali (articolo 4), manca qualsiasi riferimento su come questi obblighi saranno rispettati e su ciò che accadrà nei centri, sul loro scopo e su come saranno gestiti. Secondo quanto si estrapola dalle parole della premier italiana, è presumibile che il piano sia quello di gestire un processo di screening nei centri, tuttavia “il linguaggio del protocollo suggerisce che le procedure di frontiera per l’asilo e di rimpatrio” saranno svolte negli stessi centri.
E poi c’è una delle questioni più allarmanti: dal momento in cui le due strutture saranno sotto la giurisdizione italiana in territorio albanese, “questo assetto è simile al ‘modello australiano’ piuttosto che all’accordo tra Regno Unito e Rwanda“. Il riferimento è alla politica messa in atto da Canberra dal 2001, che prevede prigioni sulle isole di Papua Nuova Guinea e Nauru (Paesi un tempo governati dall’Australia ma oggi indipendenti) per le persone migranti che arrivano via mare. Diverso il caso del criticatissimo – anche dalla Commissione Ue – accordo tra Londra e Kigali per il trasferimento nel Paese africano delle persone migranti le cui domande di asilo devono ancora essere esaminate dal Regno Unito. In quel caso non si tratta di cessione di sovranità da parte del Rwanda.
A proposito della cessione di sovranità, si passa alle problematicità legali. La rete di Ong che promuove i diritti dei rifugiati, dei richiedenti asilo e degli sfollati mette in chiaro che “secondo il diritto internazionale, non è possibile per uno Stato cedere la giurisdizione su una parte del proprio territorio per gli scopi descritti“. A questo si aggiunge il fatto che l’Albania sta gradualmente adottando l’acquis dell’Unione Europea “anche in materia di asilo”. Nel cortocircuito per cui le persone sarebbero sotto la giurisdizione italiana – ma senza trovarsi sul territorio italiano – e rimanendo comunque anche sotto la giurisdizione albanese, si innestano altri problemi legali. In primis “non è consentita l’applicazione extraterritoriale del processo di screening e delle procedure di asilo e di rimpatrio alla frontiera“, fa notare Ecre a proposito del diritto Ue e delle discussioni in corso sul Patto migrazione e asilo (Regolamento sullo screening, Regolamento sulle procedure di asilo e direttiva sui rimpatri). E dal momento in cui le procedure non si svolgono sul territorio italiano, “non sarà possibile il rispetto delle garanzie procedurali”.
Ma soprattutto “non è legittimo il ricorso automatico alla detenzione“. Il protocollo fa riferimento al “soggiorno” delle persone nei centri, ma “non c’è dubbio” che saranno considerati centri di detenzione dalla giurisprudenza: “Quando termina [il periodo di permanenza, ndr] le persone non vengono rilasciate in Albania, ma allontanate dal territorio albanese”. Infine c’è la possibilità concreta che il dirottamento delle operazioni di ricerca e soccorso in mare verso l’Albania costituisca una “violazione del diritto internazionale del mare”. Nonostante gli obblighi varino dal luogo – acque territoriali, in alto mare, o nella zona Sar di un altro Stato – rimane centrale il fatto che “il soccorso comprende il trasporto e lo sbarco nel luogo sicuro più vicino“. Al momento non è nemmeno chiaro se l’Albania possa essere considerata un “luogo di sicurezza” per esempio per le vittime della tratta di esseri umani – sottolinea Ecre – e nemmeno se il trasporto di persone soccorse in mare per trattenerle in centri di detenzione costituisca “un trasporto verso un luogo di sicurezza” come previsto dal diritto.
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