Bruxelles – Con un aumento della temperatura globale di 2 gradi rispetto ai livelli preindustriali, più del 50 per cento delle località sciistiche europee sarebbero a “rischio molto elevato di scarsità di neve“. È quanto emerge da uno studio pubblicato dalla rivista scientifica Nature Climate Change. Ed è uno scenario che – a osservare i primi scampoli della stagione invernale – non si discosta ormai più dalla realtà di oggi.
Dopo una delle peggiori annate che si ricordino sulla regione alpina, gli impianti hanno inaugurato la stagione all’insegna di qualche timida nevicata. Ma le temperature ampiamente al di sopra della media hanno spento l’ottimismo iniziale. E rinnovato la minaccia per un industria dal valore di quasi 30 miliardi di euro. Anche perché il cambiamento climatico agisce più rapidamente nelle Alpi che altrove: secondo la Convenzione delle Alpi e l’Agenzia Europea per l’Ambiente, sull’arco alpino le temperature sono già aumentate di quasi 2°C, a una velocità doppia rispetto alla media dell’emisfero settentrionale.
“Se non si riducono le emissioni dannose per il clima, il manto nevoso naturale potrebbe ridursi fino al 70 per cento entro la fine del secolo, e la neve naturale sufficiente per stazioni sciistiche redditizie si troverà solo al di sopra dei 2.500 metri“, ha scritto nero su bianco già nel 2016 la Commissione europea, mettendo a punto la strategia Ue per la regione alpina.
Emissioni da ridurre anche nelle località sciistiche: non solo le emissioni indirette legate ai consumi degli impianti di risalita, ma anche i voli turistici e gli spostamenti in auto, l’energia utilizzata nelle strutture ricettive. Le Alpi attraggono circa 120 milioni di turisti ogni anno e – secondo la Commissione europea – l’84 per cento dei viaggi per vacanza nelle Alpi avviene in automobile. E la montagna accusa il colpo.
Nell’occhio del ciclone è finita anche la Federazione Internazionale dello Sci (Fis), accusata di scarso impegno per garantire la sopravvivenza dello sport e dell’ambiente che lo ospita. Già nel febbraio scorso 500 atleti professionisti degli sport invernali avevano pubblicato una lettera in cui chiedevano alla Fis una maggiore azione per il clima. Spostare il calendario delle gare di almeno un mese per adeguarsi al cambiamento climatico, pubblicare il proprio impatto ambientale con maggiore trasparenza, ridurre i viaggi aerei degli atleti, alcune delle richieste.
Il punto è che il futuro degli sport invernali dipende sempre di più dalla capacità che avranno di ridurre il proprio impatto sull’ambiente nei prossimi decenni. E la neve artificiale non può essere una soluzione. Perché tiene a galla le stazioni sciistiche al di sotto dei 1800-2000 metri, ma consuma molte risorse, prima fra tutte l’acqua. Lo studio di Nature Climate Change afferma che le emissioni derivanti dall’innevamento sono pari solo al 2 per cento delle emissioni complessive legate agli impianti sciistici, ma sottolinea che – prendendo l’esempio delle Alpi francesi – il consumo di acqua potrebbe aumentare di nove volte entro il 2100 a causa della dipendenza dalla neve artificiale.
Se contemporaneamente continuerà il declino dei ghiacciai alpini il cocktail è letale. E gli scenari più drammatici parlano di un arco di meno di 100 anni perché le Alpi orientali e gran parte di quelle occidentali rimangano completamente prive di ghiaccio. E c’è sempre chi sta peggio: basti pensare all’Emilia-Romagna, che il 20 dicembre ha stanziato oltre 4 milioni di euro di ristori a imprese e comprensori sciistici “in crisi” – si legge nel comunicato della Regione – “per il clima anomalo dell’inverno scorso”.
Ma “il clima anomalo” è sempre più la normalità, e occorre reinventare gli sport di discesa invernali con l’impatto minore possibile: come l’iniziativa Homeland, a Montespluga in Lombardia, dove l’inverno scorso è stata inaugurata la prima stazione sciistica d’Europa senza impianti di risalita.