Bruxelles – “La migrazione è sempre stata una realtà per l’Europa e lo sarà sempre, nel corso dei secoli ha definito le nostre società, arricchito le nostre culture e plasmato molte delle nostre vite, e sarà sempre così”. A rileggere oggi le parole con cui Ursula von der Leyen apriva la conferenza stampa di presentazione del Patto migrazione e asilo il 23 settembre 2020 sembra di avere a che fare con un’altra presidente della Commissione Europea. In meno di tre anni e mezzo – quando la legislatura in corso è quasi agli sgoccioli – la narrativa sulla migrazione è completamente cambiata e ora la politica tedesca non sembra avere un momento di esitazione quando, da neo-eletta Spitzenkandidatin del Partito Popolare Europeo, rivendica con veemenza che “siamo noi europei che decidiamo chi arriva in Europa e in quali circostanze, non le organizzazioni criminali di trafficanti“.
Nel suo intervento al Congresso di Bucarest di oggi (7 marzo) nella nuova veste di candidata comune del Ppe alle elezioni europee di giugno, von der Leyen ha mostrato per la prima volta in modo palese di aver abbracciato l’approccio conservatore e securitario del presidente dei popolari europei, Manfred Weber. Parlando proprio dell’ormai prossima ultimazione a livello legislativo del Patto migrazione e asilo, von der Leyen ha citato solo il fatto di aver “rafforzato le frontiere europee” e soprattutto che “continueremo a farlo”. Un’indicazione di come potrebbe svilupparsi la politica migratoria di una Commissione von der Leyen bis, anche considerato il fatto che da questa narrativa è scomparso anche il più piccolo accenno a quel “ragionevole equilibrio tra responsabilità e solidarietà tra gli Stati membri” nella gestione del fenomeno, che invece costituiva la base dell’approccio di inizio mandato. “Non si tratta di stabilire se gli Stati membri debbano sostenere con solidarietà e contributi, ma di stabilire come farlo”, era l’esortazione di una von der Leyen più giovane di soli tre anni.
Senza dubbio gioca un ruolo non di secondo piano il fatto che von der Leyen oggi non è più solo presidente della Commissione Ue, ma anche candidata del Ppe a succedere a se stessa per altri cinque anni. E in questa campagna elettorale i popolari europei stanno cercando di pescare anche nel bacino di voti della destra conservatrice, dal Green Deal alla migrazione, appunto. Ma non per questo non solleva meno perplessità l’attenzione focalizzata solo sulla gestione delle frontiere esterne, così come la condivisione di un Manifesto elettorale che sul piano della migrazione si pone in linea di netta discontinuità con l’esecutivo Ue in carica da lei stessa presieduto. Tra i ringraziamenti ai capi di Stato e di governo europei espressione dei partiti affilati al Ppe, la nuova Spitzenkandidatin ha citato la premier lituana, Ingrida Šimonytė, “per aver combattuto la strumentalizzazione della migrazione di Lukashenko” (anche attraverso la costruzione di barriere di confine) e il cancelliere austriaco, Karl Nehammer, “per aver combattuto la migrazione illegale e aver rafforzato le frontiere esterne dell’Unione”. Nessun accenno all’accoglienza delle persone migranti in arrivo o alla solidarietà tra i Paesi membri per sostenerne i costi e la gestione.
In questo contesto da campagna elettorale ufficialmente iniziata, è quasi impossibile distinguere dove inizia la presidente della Commissione Europea e dove la Spitzenkandidatin del Ppe, soprattutto quando von der Leyen afferma che “abbiamo un Manifesto fantastico, è tempo di convincere le persone“. Il Manifesto dei popolari europei è al momento quanto di più distante potesse esprimere la famiglia di centro-destra rispetto alla politica migratoria portata avanti dall’esecutivo Ue in carica. Nel testo (ancora non pubblicato) si legge che “siamo favorevoli a un cambiamento fondamentale della legislazione europea in materia di asilo“, nonostante proprio la legislazione Ue in materia sia pronta per essere riformata dopo anni di discussioni e scontri inconcludenti. Il cambiamento auspicato dal Ppe è quello per cui l’Ue e i suoi Stati membri devono avere “il diritto di decidere chi e dove concedere” l’asilo, in cui è il “dove” da sottolineare: “Chiunque richieda asilo nell’Ue potrebbe essere trasferito in un Paese terzo sicuro e sottoporsi alla procedura di asilo. In caso di esito positivo, il Paese terzo sicuro concederà protezione al richiedente in loco“. È il cosiddetto ‘modello Rwanda’ tracciato negli ultimi anni dal Regno Unito e criticato aspramente dall’attuale Commissione Europea, con l’aggiunta di “quote umanitarie annuali di individui vulnerabili” a cui concedere la protezione internazionale. L’unico commento di von der Leyen a riguardo è stato sul fatto che “il concetto di Paese terzo è già stabilito nel diritto europeo, le procedure devono avvenire sulla base della Convenzione di Ginevra e della Convenzione europea sui diritti umani”. Anche se il Manifesto puntualizza che esse “non prevedono il diritto di scegliere liberamente il Paese di protezione”.
Tre anni di cambio di rotta sulla migrazione
Ma non è solo la campagna elettorale ad aver cambiato la narrativa di von der Leyen sulla politica migratoria. Se si analizzano i passaggi principali degli ultimi tre anni e mezzo di politica europea, ci si può rendere facilmente conto di come il cambio di rotta da un’impostazione di equilibrio tra solidarietà e responsabilità a uno quasi solo securitario e di difesa dei confini sia stato lento ma costante. Ancora nell’autunno del 2021 – quando per l’Unione il tema più urgente era la cosiddetta ‘strumentalizzazione della migrazione’ da parte dell’autoproclamato presidente della Bielorussia, Alexander Lukashenko – von der Leyen respingeva l’idea di Weber di finanziare le barriere di confine con i fondi Ue, anche se motivava la scelta con il fatto che “contro l’Ue è in atto un attacco ibrido da parte di un regime autoritario per destabilizzare le democrazie vicine, non una crisi migratoria”.
Tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023 si è iniziato a percepire in modo più insistente il tema del rafforzamento delle frontiere esterne, con una lettera pre-Consiglio Europeo un anno fa che ha creato non poche polemiche sulla “mobilitazione dei fondi Ue per supportare gli Stati membri a rafforzare le capacità e le infrastrutture di controllo delle frontiere“. Si trattava di un riferimento a una serie di infrastrutture – come strade per il pattugliamento dei confini, stazioni di guardia di frontiera e sistemi di sorveglianza – che già ora possono essere finanziate con i fondi Ue. Nonostante non si trattasse di un’apertura all’utilizzato del budget dell’Unione per la costruzione di muri, la confusione creata in tale circostanza da von der Leyen ha dimostrato in realtà il vero nodo della questione: più che tecnica, la contrarietà dell’attuale Commissione Ue si imposta sul piano dell’interpretazione dei Trattati fondanti dell’Unione, più precisamente il principio di non respingimento sancito dall’articolo 78 del Tfue. In altre parole, fino a oggi la costruzione di muri di confine potrebbe costituire un caso di pushback (respingimento illegale di persone con diritto alla protezione internazionale ai confini dell’Ue), secondo un’intesa informale tra Commissione e maggioranza al Parlamento Ue a inizio legislatura, ma non è detto che questa interpretazione non possa cambiare dopo le elezioni di giugno.
In questo contesto c’è infine da considerare il progressivo avvicinamento di von der Leyen con la prima ministra italiana e presidente del Partito dei Conservatori e Riformisti Europei, Giorgia Meloni, anche in ottica post-elettorale per la nomina della presidenza della Commissione Ue da parte dei 27 capi di Stato e di governo al Consiglio Europeo. Tra i diversi contatti tra le due leader nell’anno e mezzo di governo Meloni va ricordato lo scambio di lettere del marzo 2023 dopo il naufragio di Cutro: nella risposta della presidente dell’esecutivo Ue compariva per la prima volta quell’approccio “olistico” basato anche sul “combattere le reti criminali di contrabbando”. Un’anteprima di quell’analisi semplicistica di una materia complessa come la migrazione – sposata una visione securitaria della gestione del fenomeno – mostrata nel corso della visita a Lampedusa nel settembre dello scorso anno: “Un numero crescente di migranti lascia il proprio Paese d’origine, sono attirati da trafficanti e scafisti senza scrupoli”, affermava allora von der Leyen, lasciando intendere che i trafficanti di esseri umani sono l’unica variabile da tenere in considerazione, e abbandonando ogni riferimento al fatto che “nel corso dei secoli la migrazione ha definito le nostre società, arricchito le nostre culture e plasmato molte delle nostre vite”. Come rivendicava meno di tre anni e mezzo fa la stessa presidente von der Leyen, che oggi rivendica il nuovo slogan degli ultimi mesi “decidiamo noi chi entra in Europa, non i trafficanti“.