Bruxelles – Oggi le repubbliche baltiche ricordano la giornata storica in cui, 35 anni fa, i loro cittadini si unirono in una catena umana che attraversava i confini dei tre Stati, collegandone le capitali, per chiedere l’indipendenza dall’Unione sovietica.
Era il 23 agosto del 1989, anno spartiacque nella storia del Vecchio continente. Quella che divenne nota come la “catena baltica” (Baltic way in inglese) fu una manifestazione pacifica dalla fortissima portata simbolica, cui parteciparono circa due milioni di persone tra Estonia, Lettonia e Lituania, pari a circa un quarto della popolazione complessiva dei tre Stati all’epoca. Partendo dal castello Toompea a Tallinn, passando per Riga e arrivando fino alla torre Gediminas a Vilnius, i residenti non russi dell’area (circa un milione di estoni, 700mila lituani e 500mila lettoni) si tennero per mano formando una catena lunga circa 670 chilometri.
La catena si tenne insieme, nella sua interezza, per circa un quarto d’ora alle 19. Non un tempo lunghissimo, ma sufficiente per lanciare un messaggio molto importante. A Mosca, anzitutto: che le repubbliche baltiche, annesse all’Urss dopo la Seconda guerra mondiale come previsto dalle clausole del patto di non-aggressione tra Mosca e Berlino (il famigerato patto Molotov-Ribbentrop, allora ministri degli Esteri dell’impero stalinista e del Terzo Reich nazista) siglato esattamente cinquant’anni prima, il 23 agosto 1939, volevano l’indipendenza e che i loro cittadini erano disposti a mettere letteralmente i loro corpi in gioco per ottenerla.
Ma anche al mondo, e in particolare agli altri Paesi dell’Europa centro-orientale: per mostrare che, in uno dei passaggi più stretti della Guerra fredda, era possibile sfidare apertamente il dispotismo sovietico. Nei tardi anni Ottanta il blocco comunista, pur indebolito dalle riforme del nuovo segretario del Pcus Mikhail Gorbachev (noto come perestrojka), sembrava comunque ancora solido. La catena baltica fu una tra le scintille di quella crisi inarrestabile che, tre mesi dopo, portò all’inaspettata “caduta” del muro di Berlino, Die Mauer (per 28 anni il simbolo più tangibile della divisione dell’Europa tra Est e Ovest), e più tardi alla dissoluzione dell’impero sovietico.
La lunga colonna di cittadini dei tre Paesi baltici rappresentò probabilmente il momento più emblematico di quella serie di eventi conosciuti globalmente come “rivoluzione cantata”: una fase, a cavallo tra il 1987 e il 1991, in cui estoni, lettoni e lituani cominciarono a intonare canti popolari tradizionali e, soprattutto, i loro inni nazionali – tutti vietati dal regime comunista – come forma pacifica di protesta politica, in supporto ai movimenti organizzati pro-democrazia e pro-indipendenza. I promotori della catena baltica erano le principali forze di opposizione baltiche: il Rahvarinne estone, il Tautas fronte lettone e il Sajudis lituano, che avevano organizzato la protesta il 12 agosto precedente. Mentre cantavano, vestiti con costumi tradizionali, i manifestanti sventolavano le bandiere adottate dai loro Paesi prima dell’occupazione sovietica, e nel frattempo le campane di città e villaggi suonavano a festa.
Il giorno dopo, il 24 agosto, a Varsavia si instaurava il primo governo non-comunista democraticamente eletto dai polacchi, guidato da Tadeusz Mazowiecki, attivista di Solidarnosc, il partito cristiano che aveva stravinto le prime elezioni libere nel blocco comunista nel giugno dello stesso anno. Tra il marzo e il maggio 1990, Vilnius, Tallinn e Riga dichiararono la propria indipendenza dall’Urss, formalmente riconosciuta da Mosca nel settembre dell’anno successivo, quando ormai l’Unione sovietica si stava dissolvendo.