Lo chiamerò Antonio ma non si chiama così.
È un senegalese e fa il rider in una città italiana che non posso nominare. Una sera durante una consegna trova una macchina parcheggiata in mezzo alla pista ciclabile. Antonio pensa di fare la cosa giusta chiamando i vigili. La prima risposta (spazientita) che gli danno è: “Chiami un carro attrezzi”. Ma lui insiste e allora dall’altro capo del filo gli chiedono: “Ma lei chi è?” Antonio deve allora declinare le sue generalità, l’indirizzo, anche il codice fiscale. L’importante per i vigili non è sanzionare un’infrazione ma identificare chi la denuncia. Arriva una pattuglia mentre alla centrale scattano le ricerche per controllare se Antonio non sia in qualche modo legato al proprietario dell’auto, che non si tratti di una vendetta contro qualcuno con cui Antonio abbia conti in sospeso. Antonio viene trattenuto, stanno per portarlo in caserma. Ma alla fine i vigili si stancano, lo lasciano andare e se ne vanno. E la macchina rimane sulla pista ciclabile. Antonio se le cerca, mi dice un suo amico.
Come quella volta che è entrato al supermercato con lo zainetto sulle spalle. Il guardiano lo ferma e gli ingiunge di depositare lo zainetto negli armadietti di fuori. Antonio acconsente e torna indietro ma in quel momento entra un signore che non viene dal Senegal con il suo bel zainetto sulle spalle e il guardiano lo lascia passare senza battere ciglio. Allora Antonio chiede spiegazioni: “Perché lui entra e io no?” Il guardiano gli risponde che non è la stessa cosa e poi ci sono delle regole. Antonio, che se le cerca, protesta, chiede di parlare con un responsabile. Arrivano due volanti della polizia e un’ambulanza. Dal supermercato avevano segnalato che c’era uno scalmanato da sedare.
Antonio un giorno sale su un treno e per errore si siede in prima classe. Arriva il controllore e gli dice che il suo è un biglietto di seconda e che di lì se ne deve andare. Antonio si scusa, non si era accorto di essere in prima classe, si alza per cambiare vagone. Ma il controllore lo ferma: “No, dove va? Lei deve pagare la multa!” Antonio si rassegna e aspetta il verdetto. Ma lungo il corridoio sta passando una signora che sente la conversazione e interpella il controllore: “Ma che storia è questa? Anche io ho sbagliato classe e a me non ha chiesto di pagare una multa!” Antonio allora si rifiuta di pagare. Ma il controllore dice che “la casistica è diversa”. Antonio si arrabbia, scoppia un alterco. Il controllore ferma il treno e chiama la polizia. Agli agenti dice che si sentiva minacciato. Questa volta Antonio viene querelato. Soldi per un avvocato non ce ne ha. Ma c’è un’associazione di volontariato che forse può aiutarlo. Il suo amico conferma: “È lui che se le va a cercare!”.
Intanto Antonio deve rinnovare il permesso di soggiorno. Ormai conosce la procedura. Prepara tutti i documenti e va a fare la coda in questura. Ma questa volta il poliziotto gli chiede un documento mai chiesto prima: copia del rogito dell’appartamento della signora che glielo affitta. La signora gli spiega che non ha nessun rogito, che l’appartamento lo ha fatto costruire decine di anni fa su un terreno che era già suo. Antonio torna in questura ma il poliziotto non vuole sentire ragione. Antonio senza il permesso di soggiorno non può più fare il rider.
Deve scomparire, diventare un clandestino e lavorare in nero. Oppure rubare. Un bel florilegio del più fetido razzismo, diremo in tanti. Ma mica quello teatrale e sfacciato di qualche politico estremista che urla slogan ad un comizio o in un talk-show. Mica quello di qualche tabloid populista che prospera diffondendo paura e odio. No, piccole storie di razzismo quotidiano praticato dalla gente comune, quella che incontriamo ogni giorno per strada e che gli si è così profondamente insinuato dentro che non c’è neanche bisogno di attizzarlo. Gli viene spontaneo, quasi naturale.
Non siamo noi che siamo razzisti, sono loro che sono negri…