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Home » Editoriali » Lingue vinte e battaglie perse

Lingue vinte e battaglie perse

Diego Marani di Diego Marani
19 Aprile 2018
in Editoriali
Immagine tratta da gaukroger.it

Immagine tratta da gaukroger.it

La polemica scoppiata fra il Miur e la Crusca sulla questione dell’abuso di anglicismi nella lingua italiana riporta alla ribalta in parte questioni antiche riguardanti l’economia di una lingua che riguardano il fenomeno linguistico nel suo insieme e in parte problematiche specifiche della lingua italiana, di come essa è percepita fra i suoi parlanti e persino di come la nostra società giudica sé stessa attraverso la considerazione che ha della sua lingua.

Non può esistere una lingua esatta e perfettamente adatta al proprio tempo. Ogni lingua si trasforma in continuazione, acquisisce neologismi per esprimere concetti nuovi e abbandona parole cadute in desuetudine che non hanno più un corrispondente nella realtà in un processo che non è mai perfettamente sintonizzato con il presente. Di solito una lingua prende spontaneamente dalle proprie parole le radici linguistiche di un neologismo. Si pensi a una parola come “battistrada” per indicare la parte dello pneumatico che si trova a contatto con il suolo. Nei tempi moderni sempre più spesso le nostre lingue prendono i loro neologismi da lingue straniere di volta in volta dominanti, talvolta senza tradurle per ragioni di economia del linguaggio, di efficacia comunicativa o di prestigio. È il caso del francese “buffet” o dell’inglese “film” che sono diventati ormai vocaboli pienamente italiani.

Le cose si complicano oggi con l’inglese, lingua veicolo di una supremazia culturale mai vista nella recente storia dell’umanità, paragonabile almeno nel mondo occidentale solo al latino, che sta accompagnando anche una mutazione tecnologica senza precedenti. Difficile dunque sfuggire a parole come “e-mail” o “computer”, anche se tradurle sarebbe possibilissimo, come hanno fatto i francesi con il loro “courriel” (abbreviazione di “courrier électronique”, cioè posta elettronica) e “ordinateur”, l’ordinatore che da noi ebbe vita brevissima. E qui sta tutta la questione: perché i francesi traducono e noi no? Essenzialmente perché i francesi hanno un rispetto e una devozione per la loro lingua che noi non abbiamo per la nostra. Loro sentono il bisogno di trasporre i nuovi concetti della modernità in un vocabolario familiare e pronunciabile con chiarezza, senza nessun complesso di inferiorità nei confronti dell’inglese, tanto più che furono i francesi prima degli americani a inventare internet con il loro seppur rudimentale “coditel”.

Noi invece consideriamo in partenza la nostra lingua perdente, inferiore all’inglese, incapace di modernità. Questo accade perché abbiamo fiducia non solo nella nostra lingua ma anche nel nostro paese, nella nostra cultura, nella società che la esprime. La sentiamo inadeguata, incapace di competere e nella lingua preferiamo la vaghezza e imprecisione di termini stranieri che fatichiamo a pronunciare piuttosto che la ricerca di un corrispettivo italiano, perché individuarlo comporta analisi del concetto, ricerca di strumenti intellettuali e capacità di adeguamento del pensiero. Tutte cose che sentiamo di non avere più.

Ma in un quadro così desolante, dove la nostra lingua si rivela vinta e soggiogata, una notizia positiva c’è e rivela la “resilienza” –  per usare proprio uno dei termini che l’italiano non tradurrebbe – di ogni grande lingua. Come ho accennato più sopra, la lingua è una in ogni momento della sua storia ed esprime una ben precisa cultura. La nostra è ancora la lingua della cultura classica, quella cultura che ha costruito l’Europa e tutto il mondo occidentale. Una lingua dunque antica, che è stata capace di farsi carico di secoli di neologismi portati alla ribalta da ogni successiva modernità. Se oggi questa lingua si rifiuta di tradurre parole come “team building” o “silent coaching” o “personal model canvas” o “edugames”, è perché ne percepisce la falsità, la vuotezza. Parole passeggere e inconsistenti che non attecchiranno. Perché sforzarsi di tradurle? La lingua italiana preferisce prenderle a bordo quel tanto che dureranno e poi espellerle quando saranno passate di moda senza lasciare traccia.

Proprio per questo è solo attraverso la solida padronanza della nostra lingua che possiamo conservare e rafforzare la nostra cultura. La complessità dell’italiano, le sue infinite sfumature di vocabolario e di forme verbali rispecchiano quella dell’esperienza umana. Abbandonarla per una lingua più semplice ma più piatta, che non è neppure l’inglese vero ma una sua moderna parodia, significa perdere il nostro primato e rinunciare a una supremazia culturale di fatto che ci viene da millenni di storia.

Tags: anglicismiCruscadiego maranilingua italianaMiur

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