Bruxelles – “Gliel’avevo detto ieri che non doveva nutrire speranze, e lui ancora che lo faceva”. “Certo che ho letto i suoi avvertimenti, ma bisogna stare attenti a leggere i tweet in inglese e non quelli in serbo, che sono propaganda“. Quella che è stata una delle conferenze stampa più dure nei confronti dello stallo dell’Unione Europea sull’allargamento ai Balcani Occidentali, a tratti si è trasformata in una stand-up comedy, con protagonisti i due leader più carismatici di tutta la regione balcanica: il premier albanese, Edi Rama, e il presidente serbo, Aleksandar Vučić. “I leader europei sembrano una congregazione di sacerdoti che discutono del sesso degli angeli mentre le mura di Costantinopoli crollano” e ancora “[gli altri Paesi balcanici] parlano una lingua strana ed è per questo che combattono tutto il tempo, sono così tanti Paesi che discutono di chi è chi, chi è più antico, chi è più saggio, chi è più bello, aspetto di vedere cosa avrà da dire la Croazia, che magari diventerà una nuova Bulgaria“.
Un esercizio di ironia politica a tratti travolgente, da cui buona parte della stampa europea – e soprattutto quella italiana, va detto – si è fatta attrarre come gli orsi con il miele. Il dinamismo, le battute e la spigliatezza in particolare di Rama, supportato da un Vučić nelle vesti della spalla impacciata, appartengono certamente a un tipo di comunicazione politica a cui non siamo più abituati (in Italia almeno dai tempi di Silvio Berlusconi premier), ma le risate sguaiate, i commenti entusiasti e i tweet di ammirazione nei confronti di due leader che sfiorano spesso il limite dell’autoritarismo sembrano quantomeno fuori luogo. A maggior ragione se arrivano da giornalisti a cui è assicurato un alto standard di libertà di espressione e da cui ci aspetterebbe un livello di attenzione maggiore alle forme più sottili di manipolazione dell’informazione e di diffusione di contenuti populisti (o almeno più rispetto per i colleghi sottoposti a maggiore limitazione della libertà di stampa).
Non è necessario entrare nel merito di quanto dichiarato da Rama e Vučić che, anzi, può anche essere condivisibile nel loro attacco spazientito per l’inerzia dei Ventisette. Tanto che il terzo – quasi incomodo – sul palco/palcoscenico è stato un Dimitar Kovačevski (il premier macedone) che più di tutti aveva qualcosa da dire, ma che è sembrato quasi fuori luogo nel suo rimanere attento a non rompere l’etichetta, neanche abbozzando un sorriso ironico o lasciandosi andare a una battuta sarcastica. Eppure proprio Kovačevski è stato l’unico a fornire una vera notizia nell’ora e mezza di conferenza stampa congiunta, con l’elenco delle linee-rosse del suo governo sulla proposta di mediazione francese alla disputa con la Bulgaria: ma il suo atteggiamento compassato, seppur deciso, lo ha bollato come meno efficace, meno esperto e meno carismatico del suo omologo albanese. In pochi lo hanno ascoltato davvero, facendosi spazientire dalla dettagliata dichiarazione pronunciata prima in macedone (a favore dei diversi giornalisti in sala arrivati da Skopje) e solo dopo in inglese e facendosi attrarre dalla loquela del duo serbo-albanese.
È piuttosto la forma – o meglio, la reazione alla forma – dei messaggi di Vučić e Rama che stona con il luogo in cui queste dichiarazioni sono arrivate. Come ha ricordato una giornalista albanese rispondendo a un collega a Bruxelles, quando si ascolta questo tipo di retorica ogni giorno, diventa tutto meno divertente. Perché non va dimenticato che in Serbia si è riaffermata la figura di un uomo-forte al comando con idee nazionaliste, mentre è sempre attuale in Albania la questione dell’uso delle risorse statali da parte del partito al governo. Si tratta di questioni inerenti al rispetto dello Stato di diritto, per cui sono necessari ulteriori passi in avanti e riforme, e per cui i due leader sono direttamente chiamati a rispondere. E una battuta sarcastica o un commento non politicamente corretto in conferenza stampa non può rendere più tollerabile un atteggiamento che, per esempio, non perdoneremmo – e non perdoniamo – mai a un Viktor Orbán in Ungheria o a un Mateusz Morawiecki in Polonia, solo perché sono membri dell’UE.
Anche perché ciò di cui si parla è della libertà dei media. Secondo i report annuali di Reporters without Borders, nel 2022 l’Albania ha perso 20 posizioni nella classifica della libertà di stampa (ora è 103esima su 180), dal momento in cui “l’indipendenza editoriale è minacciata da una regolamentazione dei media di parte, e l’integrità fisica dei giornalisti è minata dalla criminalità organizzata, dall’incapacità dello Stato di proteggerli e persino dalla violenza della polizia”. La Serbia, che ha invece guadagnato 14 posizioni in un anno (79esima), presenta criticità sul fatto che “il giornalismo di qualità e pluripremiato, che indaga sulla criminalità e sulla corruzione, è stretto tra il dilagare delle fake news e della propaganda”, sottolinea il rapporto 2022: “Sebbene il quadro giuridico sia solido, i giornalisti sono minacciati da pressioni politiche e dall’impunità dei crimini commessi contro di loro“. Puntualmente, in occasione della pubblicazione di ogni rapporto annuale, sia Vučić sia Rama si scagliano contro Reporters without Borders, accusando l’organizzazione di “fantasie” e “bugie”, sempre con la loro solita sfrontatezza. La stessa che hanno sfoderato durante la conferenza stampa a Bruxelles, riempiendola di dichiarazioni a effetto, mimiche facciali accentuate e battute ironiche. E su cui, alla fine, non c’era davvero niente di cui ridere.