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Home » Editoriali » Dove siamo?

Dove siamo?

Francesco Cardarelli</a> <a class="social twitter" href="https://twitter.com/@Ceskoz_" target="_blank">@Ceskoz_</a> di Francesco Cardarelli @Ceskoz_
9 Ottobre 2015
in Editoriali

colonna sonora: Boris Vian – Le Déserteur

Siamo nel 2003 ed è una splendida giornata di sole a Roma, come spesso accade nella città più bella del mondo, anche se è febbraio. Alex e Vera hanno passato tutta la notte a fare all’amore e dopo un lauto brunch, che nel 2003 si chiama ancora “è tardi per la colazione ma presto per il pranzo”, si vestono colorati ed escono per raggiungere un po’ di amici. Nello stesso momento Rocco, studente calabrese che ovviamente abita a San Lorenzo, stacca qualche cannetta dal mezz’etto comprato coi soldi di mammà, richiude la stagnola, mette il malloppo nelle mutande e fa uno squillo a Diego che c’ha il motorino; nel 2003 non c’è whatsapp, ci sono gli squilletti. Intanto a casa Barotti mamma Rita è appena tornata dal supermercato dove ha preso le zucchine per il minestrone di stasera e trova papà Michele con Giorgia e Luca già pronti per uscire.

E’ un sabato italiano, ma non è un sabato qualunque.

Migliaia di connazionali, ognuno secondo i propri tempi e il proprio stile, stanno uscendo dalle case, o dai treni e dai bus provenienti da tutto il paese.

A Roma c’è un’atmosfera magica, più magica del solito. Si respira fermento ed eccitazione e stranamente nessuno insulta i vigili che deviano il traffico, perché è giusto che il traffico venga deviato. Sembra che siano tutti per la strada, a piedi e sorridenti: famiglie, giovani, vecchi; tutti. Tutti sono stupiti di quanta gente ci sia, e la cosa non fa che aumentare l’euforia, anche se le rime andrebbero utilizzate solo in poesia. Ci si incontra, ci si riconosce, ci si sorprende e soprattutto ci si sorride.

Qualche ora prima, mentre Roma ancora dormiva o, come nel caso di Alex e Vera, faceva all’amore, dall’altra parte del pianeta, nella città di Melbourne, Jonathan e Libby uscivano di casa in quello che per loro era già sabato mattina, per raggiungere un po’ di amici e anche centinaia di migliaia di altri connazionali sconosciuti, per chiedere tutti insieme con passione la stessa identica cosa. Quel sabato di metà febbraio, in tutti e cinque i continenti, in ordine di fuso orario, milioni di persone di ogni età, razza e religione, uscivano di casa per andare in piazza a gridare con tutta la voce che avevano in corpo NO ALLA GUERRA, SENZA SE E SENZA MA.

In quello storico 15 febbraio 2003 tutta una parte del mondo, la parte più bella della popolazione del mondo, scopriva di non essere sola. Su ogni balcone c’era una bandiera colorata.

Erano freschi i ricordi del sangue di Genova e di New York, due punti chiave nella storia del mondo moderno, eppure tutta quella gente, cioè noi e milioni di nostri simili che sono ancora là da qualche parte, senza paura e senza dubbi, senza se e senza ma, appunto, gridava che la guerra non era in suo nome. Gridavamo NOT IN MY NAME, contro l’intervento in Iraq.

La guerra fa girare l’economia, la guerra riassesta gli equilibri geopolitici, la guerra fissa il prezzo del petrolio, la guerra è il gioco più sporco che c’è.

Quel sabato la parte più bella del mondo è scesa in piazza per stringersi contro l’ingiustizia della parte più brutta ma purtroppo più potente del mondo. La sua voce non è stata ascoltata e la guerra è iniziata, portando solo danni maggiori, come era ovvio che fosse. Da quel giorno la guerra non si è mai più fermata, entrando a far parte della nostra quotidianità. Sono stati creati nemici sempre più odiosi e spietati, il male incarnato come forse solo i nazisti erano riusciti ad essere; Al Qaeda è diventata una barzelletta di fronte all’ISIS che tutti vogliamo venga cancellato dalla faccia della terra.

Non sto a sindacare su chi ha armato e finanziato il “Califfato che cambia continuamente nome”, su come dovrebbe essere facile annientarlo per le super-potenze mondiali, su come lo si lasci agire indisturbato perché forse fa comodo a qualcuno. Sono discorsi da cui non si esce, argomenti che più o meno conosciamo tutti ma per cui non possiamo fare niente e forse non sapremo mai la verità. Ma qualcosa mi brucia dentro. Brucia forte come le bombe al fosforo lanciate dagli americani nel 2004 in Iraq, quelle che scioglievano i corpi lasciando intatti i vestiti, quelle che non erano in nostro nome.

Martedì 6 ottobre 2015, più di dodici anni dopo quel sabato, mi sono svegliato con il giornale radio che candidamente annunciava una probabile partecipazione italiana ai bombardamenti in Iraq. Un colonnello intervistato tiene a precisare che “per l’Italia non cambia nulla, i nostri ragazzi sono addestrati e semplicemente i voli che finora sono stati di ricognizione diventerebbero di bombardamento”. Non cambia nulla.

Come dire “invece di fare la solita passeggiata domani do fuoco a una caserma e rapino un paio di banche”. Cosa cambia?

La notizia è stata poi smentita, poi ritrattata, poi sembra che si debba valutare, ce l’hanno chiesto e non possiamo rifiutarci, ma comunque sarà il parlamento a decidere… Resta il fatto che stiamo parlando della possibilità di entrare in guerra non solo come stiamo facendo già da decenni come supporto/peace-keepers/ricognitori (per poi piangere i nostri morti stupendoci del fatto che in guerra spesso si muore) ma diventando parte attiva nel causare altre morti. Di nuovo in Iraq, come nel 2003.

Ci siamo talmente abituati a stare in guerra che ormai non fa più notizia. L’ISIS o Califfato Islamico, o IS o DAESH o SPECTRE o Meganoidi è così cattivo che accettiamo tacitamente che venga bombardato per essere distrutto. Finché per errore gli alleati radono al suolo un ospedale di MSF, a ricordarci che la guerra è fatta di danni collaterali tipo i bambini, le feste di matrimonio, le scuole, i volontari, i civili, gli innocenti. Le persone che non c’entrano niente. Quelle che dodici anni fa eravamo scesi in piazza a difendere a milioni in tutto il mondo

Oggi vedo gente che scende in piazza per protestare contro i migranti, senza domandarsi da dove vengano, senza pensare che sono persone, senza guardare più in là di quello che dice la televisione, dando ascolto a fascisti sdoganati che andrebbero rinchiusi in carcere e invece sono pagati coi nostri soldi di contribuenti. Abbiamo perso la memoria, abbiamo perso la vergogna, abbiamo perso l’indignazione, abbiamo perso l’umanità, abbiamo perso la solidarietà, abbiamo perso l’allegria, abbiamo perso la parte più bella di noi stessi e abbiamo solo tanta rabbia, incanalata a cazzo di cane.

Dove sono Alex e Vera, dov’è Rocco, che fine hanno fatto i Barotti, Jonathan e Libby? Dove sono quei milioni di persone che hanno reso il 15 febbraio 2003 un giorno storico? Non abbiamo fermato la guerra ma ci siamo detti che c’eravamo. Cantavamo e gridavamo insieme contro qualcosa di orribile, che da quel giorno non si è mai più fermato. Eravamo tutti lì, allegri, colorati e determinati a protestare.

Dove sono finite le bandiere? DOVE CAZZO SIAMO FINITI TUTTI?

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